Laurens – Laurentum

[t.2, pp.189-207]

Tor Paterno – Capocotta

Laurens e Laurentum i Latini, AaupsvTov e Aw sv:w i Greci chiamarono quel distretto marittimo del Lazio, che si estende dalla foce ostiense, a sinistra del Tevere fino al confine del territorio anziate, e donde trasse nome l’antichissima città di Laurentum. La etimologia di questo nome concordemente derivasi dagli scrittori antichi dai lauri che particolarmente vi abbondavano, e che continuavano ancora a vestir questa spiaggia sul finire del secondo secolo della era volgare per testimonianza di Erodiano lib. I c. XII. Questo storico narrando la fiera pestilenza che afflisse Roma circa l’anno 189 della era cristiana, dice che Commodo per consiglio di alcuni medici, e forse di Galeno che allora fioriva in Roma, andò a ritirarsi in Laurento villa freschissima, adombrata di grandissimi alberi di lauro, donde essa traeva nome, la quale sembrava essere un luogo salubre ed opporsi al corrompimento dell’aria pel buon odore che tramandavano i lauri e per la ombra piacevole che gli alberi davano. L’autore della Origo Gentis Romanae, parlando dell’arrivo di Enea in Italia dice, che approdò ad eam Ltaliae oram, quae ab arbusto eiusdem generis LAURENS appellata est. Oggi però su questa spiaggia i lauri sono presso che affatto spariti, e mentre il suolo è coperto da immense boscaglie di ogni specie di alberi e di arbusti, rari sono gli allori, in guisa che se non fosse certo, che il laurus de’Latini corrisponde al nostro lauro, da questa circostanza nascerebbe il dubbio della identità di tal pianta. Documenti moltiplici e superiori ad ogni eccezione mostrano, che l’Agro Laurente si estese, come indicai dapprincipio, fra la foce del Tevere ed il territorio anziate, in guisa che comprese ancora il ristretto regno, o cantone de’Rutuli; quindi Virgilio lib. VII. chiamò Turno, laurente:

quo pulchrior alter

Non fuit, excepto laurentis corpore Turni.

e Stazio Sylv. lib. I. §. III. appella laurentia iugera il regno de’Rutuli:

. . .cedant laurentia Turni iugera.

Questa contrada veduta da un luogo elevato si presenta da lungi come una vasta pianura coperta lungo il mare da selve, e più indentro nuda di alberi, meno picciole eccezioni di ristrette boscaglie, simili a macchie, effetto che diè origine al vocabolo macchia, col quale il volgo appella ogni sorta di foreste, e perfino i boschi di lusso nelle ville de’grandi. Ma quando poi si va sui luoghi quest’ apparente pianura eguale si cangia in una successione continuata di colline ora leggiermente sfaldate, ed ora erte e scoscese, più communemente nude, ma non di rado ancora vestite nelle pendici da arbusti, e solcate ai piedi in varie direzioni da rivi e torrenti che hanno formato valli variate per estensione, ed alle volte amene e ridenti. Questo sistema di colline deesi principalmente alle acque che vollero aprirsi uno scolo, o nella gran valle del Tevere, o verso il mare: verso la spiaggia però esso va a terminare in una barra di dune, che quanto più si appressa alla foce tiberina, più si moltiplicano, formando linee parallele di tumuli di sabbia, che i naturali appellano il tumoleto. Queste dune furono prodotte dal ritrarsi successivo che fece il mare forzato dalle terre, che il Tevere specialmente nelle sue piene trascina, e che l’impeto delle onde riversa sul lido. Ed è pur bello vedere come queste arene che prolungano la spiaggia laurente, dapprincipio sterilissime si vanno a poco a poco vestendo di piante, e come questa novella vegetazione varia a misura che il mare più si allontana, osservazione che non isfuggì al celebre Lancisi, il quale nelle sue animadversioni fisiologiche sulla villa laurentina di Plinio notava un secolo fa, come le prime a sbucciare sono l’eruca maritima ed il gramen spicatum, e come a queste succedono l’eryngium, il crithmum, il parthenium, il polium, il tithymalus ec. Più entro terra poi crescono il iuniperus, l’arbutus, l’erica, o myrica, la sabina baccifera, l’oleaster, il myrthus, il rosmarimum, arbusti frammischiati alla stoechas citrina, alla medica marina, alla medica echinata, all’annonis lutea, alla cistus foemina, all’asphodelus, alla lychnidia, alla vicia, alla soldanella, all’heliantheum, al periclymenus ec. E finalmente dove la sabbia col volger de’secoli, e per la decomposizione de’vegetabili è divenuta terreno sodo, sul suolo coperto di erbe pratensi crescono alberi giganteschi, il pino, l’elce, la quercia, il sughero, il frassino, l’orno, l’olmo ec. piante che Virgilio ancora ricorda, come esistenti nella selva laurente, lib. XI. v. 133 e seg.

Bis senos pepigere dies, et pace sequestra,

Per sylvas Teucri mixtique impune Latini,

Erravere iugis: ferro sonat icta bipenni

Fraxinus: evertunt actas ad sidera pinus,

Robora, nec cuneis et olentem scindere cedrum,

Nec plaustris cessant vectare gementibus ornos.

E siccome questa vegetazione successiva è un effetto prodotto dalla natura del terreno e dalla circostanza del ritiro del mare, perciò possiamo esser certi che l’aspetto di questa spiaggia ai tempi di Enea era lo stesso di quello di oggi; se non che allora presso la foce del Tevere era di circa 3 miglia più indentro quello che oggi veggiamo accadere 3 miglia più in fuori; non così presso Lavinio ed Ardea dove il mare è presso a poco rimasto nello stesso limite.
Laurentum però non fu soltanto il nome della contrada entro i confini sovraindicati, lo fu ancora di una città antichissima, che ivi trovavisi, e che per un tempo fu la metropoli degli Aborigeni, e de’Latini, la quale è ricordata dagli scrittori greci e latini, e che diè nome ad una via, che laurentina si disse, della quale come delle altre strade consolari che uscivano da Roma farò un articolo particolare a suo luogo: veggasi l’art. VIE.
Dopo avere esposto, che Laurentum fu un nome dato, non solo ad una contrada marittima del Lazio e delle regioni adiacenti, sulla riva sinistra del Tevere ma ancora di una città, che fu la sede del regno latino, parmi dovere istituire ricerche sul sito di questa città medesima, tanto più opportune, perché tendono a rischiarare la storia della origine di Roma. Polibio, è lo scrittore più antico, che ricorda il commune de’ Laureati, allorché riferisce il trattato di amicizia e di commercio, conchiuso frai Romani ed i Cartaginesi subito dopo la espulsione de’ Tarquinii. In quel documento insigne ed antichissimo della diplomazia, i Romani, volendo mostrare la loro supremazia sopra tutta la spiaggia latina e limitrofa, compresero tutti i popoli marittimi fra Roma e Terracina. Imperciocchè figurano in esso gli Anziati, i Circeiati, ed i Terracinesi, che abitavano immediatamente sul mare, e gli Ardeati ed i Laurentini, che erano a piccola distanza del lido, cioè di 3 e 4 miglia. A questo documento coerente è il passo di Strabone che nel lib. V. descrivendo la parte marittima del Lazio nomina in primo luogo Ostia ed Anzio, e quindi le città intermedie entro terra a picciola distanza, Lavinio, Laurento, ed Ardea. E che Laurento, città del Lazio marittimo non fosse bagnata immediatamente dal mare, come neppure stesse a pochi passi da quello, è chiaro pel poema immortale di Virgilio, nel quale si ricorda la situazione di Laurento, e se ne descrivono le adiacenze con caratteri vivi: e mai non si parla di vicinanza immediata col mare. Laonde, se Laurento fosse stata bagnata dal mare, o ad una distanza di pochi passi, quel poeta, che vivea mentre Laurento non era ancora scomparsa, non avrebbe certamente trascurata una circostanza che poteva fornirgli episodii ed immagini luminose.
Queste considerazioni escludendo, che Laurento stesse immediatamente sul mare, non escludono affatto, che fosse in quella parte del Lazio marittimo, che si estende fra Ostia, e Lavinio ( oggi Pratica ), essendo su questo punto concordi le testimonianze degli scrittori antichi, come Dionisio, Livio, Strabone, Pomponio Mela, Plinio, e specialmente quella della Carta Peutingeriana, che è un documento geografico. Circa il sito di Laurento Virgilio lo mostra collocato sopra una eminenza che avea sotto una pianura, e dietro questa, una palude vasta, e più oltre in distanza il mare:
Atque hinc vasta palus, hinc ardua moenia cingunt. Si notino gli epiteti di vasta data alla palude, e di ardua dato alle mura. Altrove il poeta mostra, che Laurento era eminentemente distante dal mare, e che fra questa città e la foce del Tevere il suolo era vestito da selve estese in modo, che gli fornirono la idea dell’ episodio decantato dello smarrimento di Niso ed Eurialo. La distanza da Roma a Laurento viene determinata dall’ Itinerario di Antonino a 16 miglia. E la giustezza di questo numero si conferma col passo di Plinio il giovane, il quale dice, che la sua villa laurentina era 17 miglia distante da Roma fra Ostia, e Laurento, sulla spiaggia del mare: che vi si poteva andare per ambedue quelle vie, cioè per la ostiense e la laurentina: che dalla ostiense deviavasi a sinistra all’ undecimo miglio, e dalla laurentina a destra al decimo quarto: le due vie sono ben note, conservano le traccie del pavimento antico, ed alcuni ponti, in modo che la direzione non può smarrirsi in una distanza così limitata: e la laurentina particolarmente conserva ancora presso il casale di Decimo al posto suo la colonna milliaria antica col num. XI. come fa notato all’ art. DECIMO T. I. p. 551.
Con questi dati positivi, e quasi oso dire geometrici, seguendo sempre le traccie della via laurentina, che nella macchia dopo il casale di Decimo sono molto visibili, credo di avere riconosciuto il sito di questa metropoli primitiva del Lazio ne’ dintorni del casale di Capocotta, che dà nome ad un tenimento vastissimo de’ Borghese, fertile, ameno, e fra quelle boscaglie ridente, circa 16 miglia distante dalla porta antica di Roma per la via laurentina, 2 dal mare, sito ricco di acque, che oggi sono inalveate, ma che ne’ tempi primitivi ristagnando davano origine alla vasta palus di Virgilio. È il casale in un sito eminente relativamente ai campi sottoposti verso occidente: il suolo rigurgita di cementi stritolati dall’ azione dell’ aratro e del tempo, ed in un punto così solingo questa è una prova di fatto della popolazione che un tempo lo coprì.
Autori gravissimi ne’ tempi passati credettero che Laurento fosse a Tor Paterno, opinione, che ha tale apparenza di verità, che io medesimo ne rimasi convinto, prima di conoscere bene i luoghi, quantunque debba confessare, che mi faceva sempre nella mente un ostacolo forte quel silenzio perpetuo di Virgilio, che mai non parla di vicinanza immediata del mare, quella pianura, che presso Tor Paterno si riduce ad uno spazio troppo ristretto; e soprattutto gli avanzi superstiti in quel luogo, certamente vestigia di una villa, piuttosto che di una città; ma privo di altre cognizioni locali mi sottometteva alla opinione di coloro, che in queste ricerche mi aveano preceduto. Dopo che per la formazione della Carta ho percorso quelle selve in tutte le direzioni, cioè da Ostia al mare, e per la spiaggia a Tor Paterno e dentro e fuori la selva: da Ostia a Castel Fusano e per la selva a Tor Paterno, e Porcigliano: da Malafede a Porcigliano, e per la selva ad Ostia: da Porcigliano a Decimo: da Decimo a Tor Paterno: da Tor Paterno per la Palombara a Tor s. Michele: da Decimo per Tor Paterno a Capo Cotta: da Decimo per Trigoria, e per Castel Romano a Santola, e da Capo Cotta per Petronella a Pratica: dopo tutti questi giri incommodi, e pericolosi, di che le difficoltà si possono calcolare solo da chi conosce i luoghi, non limitandomi ai sentieri battuti, ma entro la selva a traverso gli spini, le paludi, e le sabbie, sono rimasto persuaso, che niun altro luogo di tutta quella contrada presenta meglio il sito di Laurento, che Capocotta, secondo la distanza assegnata dagli antichi scrittori, e la località descritta da Virgilio. Trattandosi del sito della città più antica del Lazio, ed una delle più antiche d’Italia, parmi che queste ricerche non possano venire tacciate come superflue. Quanto poi a coloro, che privi della cognizione de’ luoghi e men scrupolosi nello allegare le autorità degli scrittori classici, e molto meno ancora in torcerle a seconda delle idee, che aveano adottato; o che abbagliati dalla somiglianza del nome crederono che a Laurento corrisponda la odierna Tor s. Lorenzo. questi non meritano oggi una confutazione di proposito, poiché agli argomenti di fatto, e di autorità finora allegati, si aggiunge quello, che in luogo di stare fra Ostia e Lavinio, Tor s. Lorenzo sta fra Lavinio ed Anzio, ed invece di essere entro i limiti del territorio Latino è nel confine di quello de’ Rutuli co’ Volsci.
Nella Carta Peutingeriana il numero XVI. indicante la distanza di Laurentum da Roma è posto in guisa, che a prima vista direbbesi messo ad indicazione della lontananza fra Ostia e Laurento, distanza che sarebbe eccessiva; ma chiaro è l’abbaglio dopo tutto quello, che si espose finora, donde risulta, che se Laurento fu 16 miglia distante da Roma, e fra Ostia e Lavinio, non poté essere 16 miglia distante da Ostia. Questa negligenza è una di quelle che s’incontrano nella Carta Peutingeriana, e che non sono poche, specialmente in questa parte; imperciocehé ivi poco dopo emerge un’ altro errore di cifra. Dopo Laurento si vede notato il numero Ui, come indicante la distanza fra Laurento e Lavinio; ma posto per gli argomenti allegati di sopra che Laurento fu a Capocotta: ed essendo provato, e concordemente ammesso che Lavinium corrisponde a Pratica; fra Capocotta e Pratica non vi sono, che tre miglia, seguendo l’ andamento della via antica; dunque dee dirsi, che colui, il quale copiò l’esemplare della carta originale confuse il num. III coli UI.
Dopo Decimo la via laurentina, che come notai di sopra è sempre visibile quanto alla direzione, pe’ poligoni, ora smossi dalle radici degli alberi secolari di quella selva, ora al posto, ora continuati, ora interrotti, per circa un miglio si costeggia la macchia di Porcigliano. A destra una strada conduce direttamente al casale di Porcigliano, che è circa 4 miglia distante da quello di Decimo per questa strada. La natura arenosa, ineguale del suolo, la piena trascuratezza della strada vengono mitigate dalla veduta magnifica, che si apre a sinistra, la quale è coronata in fondo della catena del monte Lepino, che per la distanza mostrasi a guisa di una striscia di nubi frastagliate. Volgendosi alquanto indietro un’ altro spettacolo si presenta, ed è quello della falda meridionale del monte Laziale, sulla quale veggonsi disseminate le città e le borgate, che la vestono: il candore de’ fabbricati, le cime delle cupole, e de’ campanili miste alla verdura delle terre coltivate, ed al bruno delle selve fanno un contrasto che incanta, sotto un cielo così puro come questo d’Italia.
Passato questo primo miglio dopo il casale di Decimo, insensibilmente si entra nella selva laurentina, la quale poi si mostra in tutta la sua imponenza, e per quattro miglia circa si percorre: ora questa si stringe densa, tetrissima, ora dilatasi, e qualche volta pure si apre in campi, che sono popolati di armenti numerosi di buoi, e di cavalli. Carattere che questa parte del suolo latino avea ancora all’ apice della grandezza romana per la descrizione che ne ha lasciato Plinio il giovane alla epoca di Trajano, colla differenza grandissima che passa fra lo spopolamento, e la frequenza, fralla trascuratezza e la industria, fra selve purgate, e macchie incolte, impraticabili, armenti custoditi, e bestiami abbandonati in loro balia.
Quest’ abbandono è più sensibile ancora per l’incommodo a chi percorre la strada, imperciocché la via antica bellissima, in un terreno arenoso come è questo, lastricata con gran dispendio, da poligoni di lava, fu lasciata così derelitta, che quasi direbbesi essere stati piantati alberi a bella posta, dove questa per qualche intervallo poteva offrirne il luogo, onde venisse meno ogni memoria di essa. Quindi è che manca ogni direzione: ed ora si passa sopra l’antico lastricato, ora gli alberi che vi hanno radicato impediscono ogni passaggio a segno che le pietre sono mosse e divelte. Immaginiamo per un momento, che si avesse avuta cura di mantenere il pavimento antico, quanto amena sarebbe questa via, ombreggiata da alberi maestosi, sotto un cielo, che tanto soffre dai dardi del sole, ed in un suolo così arenoso, come questo ?
Due miglia dopo Decimo entrasi nel tenimento, detto la Santola, pertinente al Collegio Alberoni di Piacenza, e che si traversa per un tratto assai lungo. Circa il miglio XIV. dalla porta antica di Roma si perviene al punto più alto del ripiano formato da questa striscia di dune, relitti antichissimi del mare, ma non così remoti, da dover risalire alla storia de’ primi tempi del nostro globo. Di là si ha una veduta magnifica della marina, che dopo la noia sofferta nella traversa della macchia riesce tanto più aggradevole, come quella che annunzia prossimo il termine degl’incommodi fino allora incontrati. Ivi un sentiero a destra guida a Tor Paterno, dove communemente si pone Laurento, siccome fu notato di sopra, e di che parlerò più sotto. A sinistra le traccie delle ruote de’ carri, che hanno antecedentemente solcato la sabbia guidano dopo circa altre due miglia, cioè al XVI. dalla porta antica al casale di Capocotta, dove fu Laurento, siccome venne indicato in principio di questo articolo, del quale altro avanzo non rimane che il sito, dove un dì sorse.
La origine di Laurento si confonde nella storia del Lazio primitivo, del quale fu la metropoli più antica. Dopo che gli Aborigeni uniti a Pelasgi discesero dagli Appennini e discacciarono i Siculi dalla pianura, che per lungo tempo avanzo occupato, Pico loro condottiero, che si dice figlio, cioè discendente di Saturno, fondò non lungi dal mare Laurento, circa 80 anni avanti la presa di Troia, cioè quasi 13 secoli avanti la era volgare. Dopo un regno di 37 anni lasciò il governo a Fauno suo figliuolo, il quale tolta in moglie Marica n’ ebbe Latino che gli successe nel regno: giacchè monarchica era la forma del governo di quelli abitanti primitivi del Lazio, e succedevansi i re da padre in figlio. Latino dopo un regno tranquillo di molti anni si riposava:

Rex arva Latinus et urbes

Jam senior longa placidas in pace regebat:

allorché comparve su questa spiaggia la flotta de’ Frigi profughi condotti da Enea. E questa approdò presso la foce del Tevere: e rimontando il fiume i Trojani posero campo sulla sponda sinistra di esso un mezzo miglio lungi dal mare, dove poscia Anco Marzio fondò la colonia romana di Ostia. Esplorato il terreno, ed informatosi chi vi abitasse, chi fosse il re, Enea non ottenne dapprincipio né ospitalità, né sussidii. Forza fu quindi venire a violenze, ed i Frigi si diedero a scorrere e depredare il paese, onde ottenere viveri, e di necessità gl’ indigeni difendendo le loro proprietà si azzuffarono co’ profughi, e ne venne una guerra aperta, alla quale presero parte principalmente da un canto i Frigi, dall’ altro i Laurentini ed i Rutuli, loro limitrofi. Dal confronto degli scrittori antichi che ci rimangono, e particolarmente da Dionisio, Livio, Aurelio Vittore, e Virgilio, i quali attinsero a sorgenti più antiche, sembra potersi conchiudere che Enea dopo qualche scaramuccia parziale venne a trattato con Latino, che gli assegnò per dimora il colle oggi detto di Pratica, e gli accordò in moglie Lavinia sua figlia, ed erede per mancanza di prole maschile de’ suoi diritti. Cosa ne seguisse si narra dove si dà il saggio storico di Lavinio, dove si nota, come morto Latino, Laurento cedette a Lavinio il suo grado di metropoli del Lazio, e come poscia morto Enea, trenta anni dopo la fondazione di Lavinio, Albalonga divenne la capitale de’ Latini. La commune origine e la vicinanza contribuì a mantenere stretta la fede e l’ amicizia fra Laurento e Lavinio, ed i successi dell’una furono communi all’altra: ed a vendetta dell’ affronto de’ Laurentini, i Laviniati uccisero Tazio.
Distrutta Albalonga Laurento come le altre città più cospicue del Lazio divenne un commune indipendente, almeno di nome. Ivi si ritirarono due de’ Tarquinii, Publio cioè e Marco, e di là vennero in Roma a svelar la congiura tramata da Mamilio e dal tiranno espulso, siccome riferisce Dionisio nel lib. V. c. LIV. l’ anno di Roma 256. Ed i Romani nel trattato famoso dell’ anno 247 conchiuso co’ Cartaginesi compresero ancora come si vide di sopra il commune de’ Laurentini, nel quale intesero comprendere ancora quello de’ Laviniati. Laurento pochi anni dopo insorse insieme cogli altri popoli latini in favore de’ Tarquinii contra Roma, e Dionisio enumerando tutti i communi, che presero parte in quella guerra sociale, nomina separatamente i Laurentini, i Lanuvini, ed i Laviniati. Finita quella guerra colla pugna presso il lago Regillo i Laurentini furono compresi nel trattato generale di concordia e di alleanza, nel quale i Romani, che erano i vincitori mostrarono una moderazione degna di alto encomio. Laurento dopo quella epoca non figurò più fralle città rivali di Roma e non entrò neppure nella lega dell’ anno 417, quando tutti i Latini presero le armi contro di essa. Infatti Tito Livio dichiara, che dopo la sconfitta dell’ esercito collegato presso il Vesuvio, e presso il fiume Astura, i Romani misero fuori di causa, come suol dir­si, i Laurenti, perché non si erano rivoltati, e rinno­varono con loro il patto sociale (foedus), e ne ordi­narono la rinnovazione ogni anno dopo il decimo dì delle ferie latine: Extra poenam fuere Latinorum Laurentes…. quia non desciverant: cum Laurentibus renovari foedus iussum, renovaturque ex eo quotannis post diem decimum latinarum.

La prossimità di Lavinio, la vicinanza di Ostia a poco a poco ne diradarono la popolazione talmente, che nell’ anno 565 di Roma, i Laurentini furono dimenticati nella distribuzione della carne, che si faceva nelle ferie latine, dicendo Livio, che a questa omissione vennero attribuiti i prodigii, che in quell’ anno avvennero, e che fatte le espiazioni dovute si celebrarono di nuovo le ferie latine, considerando, come irregolari, quelle antecedentemente celebrate: Ea (prodigia) procurata, latinaeque instauratae quod Laurentibus carnis quae dari debet data non fuerat. Sopraggiunsero nel secolo seguente i tempi luttuosissimi e le stragi della guerra sillana, e Laurento andò soggetta insieme colle altre città marittime del Lazio al guasto dalle orde sannitiche condotte da Telesino a soccorso di Mario. E da quella epoca Laurento sempre più decadde, onde Augusto vi dedusse una colonia, che in una lapide gruteriana CCCCLXXXIV n. 3. trovata circa il XIV. miglio sulla via flaminia e communicata da Lipsio a Grutero, porta il nome di Colonia Augusta Laurentu

T. VENNONIO. T. F. STELL

AEBVTIANO. PATRONO. ET

MVNICIPI. COL. AVG. LAVR

EQ. R. EQ.P. IVD. EX. V. DEC.

SELECTO. CVR. R. P. ALB

POMPEIANORVM. L. L.

PONTIF. EIVSDE. SACERD

 MVNIA. Q. F. CELERINA. VXOR

MARITO. KARISSIMO

 

Ma non potè sostenersi, e di colonia divenne villaggio, e come vicus la indica Plinio il giovane nella sua lettera XVII. del libro II. diretta a Gallo, il quale sembra essere il medesimo, che una iscrizione grute­riana p. CCCXCVIII. n. 7. appella VICVS AVGVSTVS. Quella lapide esisteva nel palazzo Cesi, fu data a Grutero da Fulvio Orsini e dice:

MEMORIAE

M. CORNELI. M. F. PAL. VALERIANI. EPAGATIANI. EQ.

DECVRIONI. SPLENDIDISSIMAE. COLONIAE. OS. …..

FLAMINI. PRAETORI. II. SACRA. VOLCANI. L……….

……………. ENQVE. SODALI. ARV……..

DECVRIONI. LAVRENTIVM. VICI. AVG. EIVS…

PATRONO. CORPORIS. LENVNCVLARIORVM….

    .. AVXILIARIORVM. OSTIENSIVM

VIX. ANNOS. XLI. ME. I

M. CORNELIVS. M. F. PALAT. VALERIANVS. DECVRIO

F. C.

 

Finalmente Trajano unì insieme i due communi di Laurento e Lavinio in questa ultima città che chiamò Lauro-Lavinio, siccome noto nel saggio istorico di Lavinio. Dopo quella epoca Laurento distintamente da Lavinio ricordasi nell’Itinerario di Antonino e nella Carta Peutingeriana, e probabilmente il vico, sebbene per le scorrerie de’ barbari nel V. e VI. secolo dive­nisse ancora più debole, qualche popolazione però vi si sarà mantenuta che ne avrà conservato il nome, onde meritasse di venire indicata in un libro postale, quale è l’ Itinerario di Antonino, ed in una carta itineraria come è la peutingeriana. Circa l’ anno 750 papa Zacca­ria volle rianimarla formandone una Domusculta, alla quale aggregò tutta la massa Fonteiana cioè il tenimento di Campo Ascolano, e parte di quello di Campo Selva, fino al Vajanico descritti di sopra, siccome apprendia­mo da Anastasio Bibliotecario nella vita di quel papa, e probabilmente a quella epoca appartiene quella fab­brica, che sembra essere stata una chiesa della grandez­za di quella di Pratica, e che oggi fa parte del casale di Capocotta: Hic domumcultam Laurentum noviter ordinavit adiiciens et massam Fonteianam, quae co­gnominatur Paunaria. E questo fatto si conferma da Cencio Camerario nel registro inserito dal Muratori nel tomo V. Antiq. Ital Med. Aevi, nel quale però per inesattezza de’ copisti leggesi Lauretum in luogo di Laurentum, e Fontismanam invece di Fonteianam: Zacharias pontifex………. constituit….. et domum cultam Lauretum, et massam Fontismanam, quae dicitur Paonaria. Nè secoli IX. e X. le scorrerie de’ Saraceni finirono di devastare tutta questa contrada e di allontanarne ogni popolazione, riducendo questa bella parte d’ Italia in quello stato di desolazione, dal quale mai più dopo non è potuta risorgere.

Nel determinare la situazione di Laurento a Capo­cotta notai, che ivi non rimangono vestigia antiche ap­parenti; ma di là non è distante più di 2. miglia verso occidente Tor Paterno, dove suol più communemente collocarsi Laurento. Prendendo una guida, e traversando il vicino bosco, che in parte spetta al tenimento di Porcigliano, al quale pure appartiene la torre suddetta, si giunge dopo circa 1. miglio, seguendo strettamente la direzione di ponente in un campo aperto, in fondo al quale è la torre verso mezzodì. Ivi tracciasi l’anda­mento di un diverticolo antico, lungo il quale veggonsi avanzi di una opera arcuata, che nella carta di Cingo­lani, ed in altre suol notarsi col nome di acquedotto laurentino: dalla direzione, sembra che prendesse l’ a­cqua nel tenimento detto la Santola, e probabilmente dal rigagnolo che va ad influire nel fosso di Piastra. Queste vestigia di arcuazione vanno a terminare in una costruzione, giacchè il terreno avvicinandosi al mare va insensibilmente salendo, e questa sostruzione finisce in una conserva, o piscina dove l’ acquedotto metteva ca­po: che ha circa 100 piedi di lunghezza e 15 di lar­ghezza. Aderente alla sostruzione dell’ acquedotto verso oriente è una specie di ricettacolo di deviazione, o al­tra conserva, quadrilunga che ha 15 piedi di larghezza e 30 di lunghezza: l’ acquedotto e la piscina sono co­strutti di opera laterizia di mattoni sottili, con calce piuttosto abbondante, costruzione analoga per ogni ri­guardo ad altre opere antiche contemporanee di Commodo, e di Severo, cioè dell’ ultimo periodo dal se­condo secolo, e del primo del terzo della era volgare: ambedue le conserve o ricettacoli erano internamente ri­vestite di signino o astraco: la prima di queste conserve , non ha rinfianchi: l’altra ossia quella in che terminava l’ acquedotto ha esternamente verso settentrione cin­que pilastri, ed internamente sette per parte. Plinio il giovane descrivendo la sua villa laurentina nella lettera XVII. del libro II. nota che mancava di acqua saliente, cioè condotta, ma che avea pozzi, o piuttosto fonti, poiché non erano profondi, ma a fior di terra, e loda la natura mirabile di quel lido che dovunque muoveasi la terra scaturiva acqua pura e sincera, e quantunque vi­cinissima al mare senza ombra di salsedine: haec uti­litas, haec amoenitas deficitur aqua salienti; sed puteos ac potius fontes habet; sunt enim in summo. Et omni­no litoris illius mira natura, quocumque loco moveris humum, obvius et paratus humor occurrit, isque sincerus ac ne leviter quidem tanta maris vicinitate sal­sus. La costruzione di questo acquedotto è evidente­mente posteriore alla epoca di Plinio: la direzione di esso tende alla odierna Torre Paterno, dove sono rovine di una villa, forse quella imperiale, dove Commodo andò a ritirarsi nella peste di Roma: ora siccome osservo nelle rovine di quella villa due costruzioni diverse, una appartenente ai tempi neroniani, l’ altra a quelli degli Antonini, e questa è analoga a quella dell’ acque­dotto, credo che non sia improbabile riferire a Commo­do l’opera di questo acquedotto, onde fornire la villa di acqua corrente. Quanto poi alla verità di ciò che Pli­nio asserisce sulla natura di questa spiaggia, i pozzi di Tor Paterno, Tor s. Michele, e quello presso Tor Bo­vacciana nelle rovine di Ostia ne sono una evidente di­mostrazione.

Il casale che ha nome di Tor Paterno, poiché la torre propriamente detta fu smantellata dagl’ Inglesi nel 1809, è uno de’ posti militari che guardano la spiaggia del mare mediterraneo. Esso è costrutto sopra i ruderi della villa testè nominata, una di quelle che nel primo e secondo secolo della era volgare coprivano la spiaggia, servendo di diporto nella stagione inver­nale, e di primavera. Esaminando queste vestigia a par­te, a parte, riconobbi, che l’ edificio più centrale, che si direbbe una gran sala, è il solo che offra una costru­zione originale del secolo primo della era volgare, di opera laterizia analoga a quella neroniana del Palatino: il resto si compone di diversi ambienti di costruzione del tempo degli Antonini, travisati da mutilamenti e fabbriche posteriori, moderne. Dopo la conserva in che metteva capo l’acquedotto, presentasi primieramente un recinto che fu probabilmente un’ area, o giardino di forma rettangolare, che nel lato che guarda settentrio­ne offre vestigia di opera mista, il solo esempio che oggi si abbia in tutta la fabbrica, e che direbbesi ap­partenere al secolo IV. della era volgare: quest’ area verso mezzodì sembra, che venisse interrotta da un ri­piano particolare, che ne occupava due sesti, rimanen­do ancora ne’ muri laterali traccie della separazione. In fondo a questa area verso oriente è il salone di co­struzione primitiva, cioè di mattoni triangolari grossi circa due oncie, arrotati, legati con poca calce e per­fettamente ordinati. Verso occidente è un’ altra sala a forma di triclinio, rivolta al mare, ed attinente a que­sta a destra una camera, che per le costruzioni moder­ne ha cangiato forma, la quale però chiudeva da que­sta parte la fabbrica. A mezzodì del salone verso orien­te, dove oggi è la caserma, distaccasi una specie di tor­re rinfiancata verso oriente e mezzodì da contrafforti, ed appoggiata verso occidente ad un muro; che è il prolungamento di quello dell’ area, e che verso il ma­re si vede troncato. Fra questo muro ed il triclinio ri­cordato di sopra è la chiesuola dedicata à s. Filippo, dinanzi alla quale un capitello ionico de’ buoni tempi ricorda la decorazione primitiva della fabbrica: altri se ne veggono a Porcigliano trasportati di qua. Questa chiesuola è in fondo, ossia verso settentrione, appoggiata al salone, ed occupa un’ antico recesso, o camera, fian­cheggiata a sinistra; e a destra da altri due recessi, o camerette per parte: verso occidente queste camerette sono separate dal gran triclinio da una sala oggi ridot­ta a stalla.

Questi sono gli avanzi, che veggonsi a Tor Pater­no, e che sono tutti insieme uniti, e legati fra loro, on­de per la disposizione mostrano appartenere ad un sol fabbricato costrutto in origine nel primo secolo, ingran­dito nel declinare del secondo, ed allora fornito di acqua corrente, ristaurato verso settentrione nel quarto. Il complesso di questi ruderi ed il riparto delle camere facilmente dimostra che fu una villa, la quale ha qual­che analogia con quella di Plinio il giovane, ma non è la medesima. Investigando tutti i dintorni non ho potu­to rinvenire alcuna analogia di topografia fra quella che Virgilio assegna a Laurento; è questa di Tor Paterno; manca la difficoltà dell’ accesso, la palude vasta, la di­stanza dal mare; poiché è evidente che, se oggi Tor Paterno è circa 1/2 di miglio distante dalla spiaggia lam­bita dalle onde, 15 secoli fa que’ ruderi erano a con­tatto immediato colle acque, e che l’ allontanamento di queste è seguito per le cause altrove esposte, communi a tutta la spiaggia presso le foci del Tevere.

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