Valmontone – Tolerium

[t. 3, pp. 369-377]

Castrum Vallis – Montonis.

La città di Tolerium, o Toleria, come una delle più antiche del Lazio, ed esistente fin dall’anno 268 di Roma, si ricorda da Dionisio, Plutarco, Plinio, e Stefano Bizantino: e fra questi scrittori, i due primi la indicavo chiaramente situata nelle vicinanze di Bola, Labico, e Pedo, mentre dall’altro canto Plinio enumera i Tolerienses fra quelle popolazioni del Lazio antico, che a’ suoi giorni erano pienamente scomparse. Stefano poi si limita ad indicare Tolerium solo come una città d’Italia, e che il nome gentile greco degli abitanti di essa era Τολερινος. Se, come sembra, Bola fu a Lugnano, Labico alla Colonna, e Pedo a Gallicano (veggansi questi diversi articoli), due soli luoghi moderni potrebbero contendersi l’onore di esser riguardati come succeduti a Tolerio, cioè Zagarolo e Valmontone, poichè avendo percorso in tutte le direzioni quel tratto del paese latino fra la Colonna, Valmontone, e Gallicano, questi due luoghi solamente presentano in tutto quel distretto traccie di antichità. Quelle di Zagarolo non appartengono ad una epoca rimota, ma sono pezzi di monumenti dislocati del tempo imperiale di Roma; nè l’aspetto di quella terra ha grande apparenza di essere stata una città antica, ma piuttosto una villa romana; al contrario Valmontone al primo aspetto mostra il carattere di una di quelle città, o piuttosto borgate munite del Lazio primitivo, essendo posta sopra un colle isolato, cinto da dirupi ed attorniato da sepolcri scavati nel tufa, come quelli di Collazia e di altre città antichissime, e fra due rigagnoli, che sono da considerarsi come due delle più lontane e perenni sorgenti del fiume Sacco, influente principale del Liri, e così abbondante di acque, come quello che, raccoglie lo scolo di tutto il bacino de’ monti lepini ed ernici, che alcuni moderni l’hanno confuso collo stesso Liri. Questo fiume è evidentemente quello, che Strabone, o per dir meglio il testo odierno di quello scrittore designa col nome di Τρηρος, e che Ovidio Fast. lib. VI. v. 565, ed Orosio lib. V. c. XVIII. appellano Tolenus. La ortografia di questa nome in, Strabone è evidentemente sbagliata, e siccome Ovidio è poeta, perciò a cagione del metro può credersi più esatto, onde invece di Τρηρος sembra doversi leggere Τοληρος: così dall’altro canto Strabone serve a correggere Ovidio ed Orosio, i quali scrissero flumenque Tolerum, e Tolerus flumen pertulit; ed è noto quanto sovente i copisti abbiano rivolto la r in n e viceversa. Stabilito pertanto che il vero nome antico del fiume sia Tolerus, come essendo indubitato, che questo sia lo stesso che il Sacco, si conosce la origine del nome di Tolerium, poichè era posta alle sorgenti di quello. Prova ulteriore, che Tolerium fosse sul sito di Valmontone è la marcia di Coriolano, il quale venendo contra le città latine dalla valle pontina, come si trae da Dionisio, e da Livio, la prima a presentarglisi sul confine volsco da quella parte era Tolerium, e questa infatti secondo Dionisio lib. VIII. c. XVII. e seg. e Plutarco nella vita di Coriolano fu la prima ad essere assalita, come successivamente assalì quelle che una dopo l’altra gli si paravano sulla strada, cioè Bola (Lugnano) Labico (la Colonna) Pedum (Gallicano). E non volendo attaccare nè i Prenestini, nè i Gabini, nè i Tusculani, perchè forse erano di accordo co’ Volsci, o non erano alleati de’ Romani, si volse contra Corbione (Rocca Priora) Boville (posta presso le Frattocchie) e Lavinio (Pratica) ultime città, che gli rimanevano a soggiogare sulla sinistra, prima di porre il campo contro Roma stessa, alle Fosse Cluilie.

In quella circostanza dice Dionisio che l’esule romano trovò i Tolerini preparati a difendersi, e che valorosamente respinsero l’assalto per un giorno intiero, ma alla fine dovettero cedere alla furia de’ Volsci. La città fu presa d’assalto, ed i Volsci ne riportarono una preda così grande in uomini, danaro, e vettovaglie, che il trasporto del bottino durò parecchi giorni. Indizio è questo della floridezza di Tolerio, sebbene la città non fosse molto grande secondo lo stesso Dionisio, il quale fa dire a Minucio nella sua legazione a Coriolano, che non credesse già facile impresa l’assalire Roma, e che non credesse di averla a fare co’ Pedani, e co’ Tolerini, piccole popolazioni, μικροπολιται. Nuovo argomento a favore di Valmontone. È singolare, che mentre Dionisio e Plutarco sono pienamente di accordo nell’indicare la presa di Tolerio, Livio non ne faccia menzione, ma invece nomini Trebiam che è fuor di luogo affatto: e perciò può credersi che il nome in Livio sia stato alterato dai copisti e che invece di Trebiam debba leggersi Toleriam; congettura che isfuggì al dottissimo Cluverio.

Dopo quella catastrofe sembra che Tolerio non venisse mai più abitata, poichè non se ne trova più menzione negli antichi scrittori; anzi Plinio come indicossi di sopra pone i Tolerienses frai popoli del Lazio affatto estinti. Hist. Nat. lib. III c. V §. 9. Quindi io credo che i cittadini superstiti si disperdessero nelle città vicine di Bola, Preneste, e Pedo. Quantunque però Tolerio fosse scomparsa, non sembra probabile che sul finire del governo republicano, o ne’ tempi floridi dell’impero il suo sito fosse trascurato da qualche ricco romano, il quale ne avrà profittato per edificarsi una villa, come di altre città primitive del Lazio essere avvenuto, afferma Strabone, e ne fan testimonianza le rovine esistenti.

Questa villa avea il nome di Casa Maior nel secolo VIII. allorchè insieme con Longoieianum, oggi Lugnano fu data da Gregorio II alla basilica lateranense, siccome si trae dal registro di Cencio Camerario inserito dal Muratori nel tomo V delle Antiq. Medii. Aevi. I coloni posti a coltivar questo fondo formarono a poco a poco la borgata, che fino dall’anno 1139 avea assunto il nome di Vallis-montonis, siccome ricavasi da un atto riferito nell’appendice II del tomo IV. degli Annali de’ Camaldolesi, nel quale leggesi come Oddone, signor di Poli mandò ambasciadore a papa Innocenzo II un tal Landone de Valle montonis. Continuava a quella epoca questa terra ad essere posseduta dai canonici regolari lateranensi, siccome sí trae dalla bolla di Anastasio IV dell’anno 1154 riportata dal Crescimbeni nella Storia della Chiesa di s. Giovanni avanti la porta Latina. Lucio III nell’anno 1182 pose Valmontone sotto la giurisdizione ecclesiastica del vescovo di Segni, e nella bolla emanata a tale uopo e riportata dall’Ughelli Tom. I. pag. 1237, come chiese di Valmontone si nominano quelle di s. Maria, s. Andrea, s. Lorenzo, s. Giovanni de Selva, s. Nicolò, s. Zotico, ed il monastero di s. Maria in Silice. Frattanto i canonici regolari lateranensi l’aveano talmente caricato di pesi, che trattavano seriamente di venderlo; laonde papa Innocenzo III col consenso del priore, e de’ canonici sovraddetti lo comperò, parte co’ danari suoi, parte con quelli di Riccardo conte di Sora suo fratello germano, e lo dié in feudo allo stesso Riccardo, salvo iure lateranensis ecclesiae l’anno 1208. E da questo Riccardo ebbe origine la linea dei Conti di Valmontone e di Segni, siccome provò con documenti autentici il Ratti nella Storia della Famiglia Sforza. In tale circostanza Riccardo fu pure investito del dominio di Poli, Sacco, e Pimpinara, e prestò giuramento solenne di fedeltà al papa suo fratello in Ferentino, atto che fu publicato dal Muratori nelle Antiq. Medii. Aevi. T. V. p. 849. Veggasi inoltre la pergamena originale di tutto questo affare esistente nell’archivio Sforza, e data in luce dal Ratti nella opera ricordata di sopra. Da quella epoca fino all’anno 1575 i Conti ritennero costantemente il dominio di questa terra. Una carta spettante all’anno 1250 e che si conserva nell’archivio de’ Camaldolesi in s. Gregorio riportata nell’appendice del tomo IV. degli Annali p. 597 ha conservato i nomi di molti abitanti ragguardevoli di questo castrum chiamati come testimoni di un testamento, e fra que’ nomi havvi quello di un Felice frate dell’ordine de’ minori che si dice castellano di Valmontone. Nel 1377 vi fu alloggiato splendidamente dal signore della Terra papa Gregorio XI. e la descrizione di quel ricevimento leggesi in Papirio Massonio presso il Muratori Rerum Italicarum Scriptores T. III. p. II. p. 711. Così nel 1383 vi fu ricevuto papa Urbano VI, e nel 1495 Carlo VIII. re di Francia. Ma nel 1527 questo castello fu riempiuto di strage, e crudelmente saccheggiato dalle orde di Carlo V. commandate dal marchese del Vasto, quelle stesse che aveano dato il sacco a Roma, e tenuto chiuso in Castel s. Angelo papa Clemente VIII. Nuove sciagure ebbe a soffrire dopo la metà dello stesso secolo; imperciocchè accesasi la guerra fra il duca d’Alba e Paolo IV, Giambattista Conti che n’era il signore aprì volontariamente le porte di Valmentone al duca di Alba, l’anno 1556; nell’anno seguente: però fu occupata dalle truppe del papa, e quindi presa dagli Spagnuoli, e dalle genti di Marcantonio Colonna, che spietatamente la misero a sacco e la incendiarono, siccome fan fede gli storici di quella guerra micidiale detta de’ Caraffeschi. Ho indicato di sopra che fino all’anno 1575 Valmontone rimase in potere de’ Conti; in quell’anno essendosi estinta la linea mascolina per la morte di Gio. Battista, a tenore del suo testamento passò in potere del suo nipote Federico Sforza conte di s. Fiora, nato di Fulvia unica sua figlia. Rimuse la Terra poco tempo sotto il dominio di casa Sforza, poichè nel 1634 Mario II. Sforza la vendette insieme col tenimento di Pimpinara a Taddeo Barberini per scudi 427,500. Morto però questo principe il cardinal Francesco Barberini vendette ai 29 di aprile 1651 Valmontone, Lugnano, Montelanico, c Pimpinara al principe Camillo Pamfilj per 687,298 scudi, e da quella epoca questa terra è rimasta sempre alla successione Pamfilj, che la ritiene ancora.

Nel riparto territoriale dell’anno 1827 Valmontone fu incluso nel distretto di Anagni nella delegazione di Frosinone, rimanendo sempre soggetta quanto allo spirituale al vescovo di Segni. Dopo che però fu formata la legazione di Velletri, nel 1831 fu distaccata da Anagni, ed inclusa nella nuova legazione, nella quale figura come capo-luogo con una popolazione di 2518 abitanti. Essa è circa 24 miglia distante da Roma, e 5 per la via diretta da Palestrina: giace sulla via provinciale casilina, corrispondente nella prima parte all’antica Labicana, e dopo Lugnano alla Latina. Appena passato Lugnano la strada scende ed attraversa una gola molto pittoresca ed amena, vestita di alberi: la via a destra è sostenuta da una sostruzione moderna. Un miglio dopo Lugnano la via latina a destra scendendo la gola dell’Algido raggiunge la labicana. Strabone dice che questa giunzione delle due vie facevasi presso la stazione ad Pictas, la quale avrà tratto nome da pitture che la ornavano: gl’Itinerarii pure la nominano, e sembra da questi che la distanza coincida presso questo luogo, coincidendo nel sito denominato Colle de’ Quadri. Poco dopo questa giunzione si presenta a qualche distanza la Terra in guisa che ha una certa somiglianza colla veduta dell’Aricia, tanto per la verdura delle boscaglie che l’attorniano come per la cupola della chiesa collegiata che la sormonta. Si giunge poco dopo presso quella, che chiamano, osteria di Valmontone, la quale serve ordinariamente di riposo a coloro che vanno ad Anagni: sopra un’altura pure a sinistra della via vedesi dominare la chiesa, ed il convento di s. Angelo de’ frati minori, il quale rimonta al secolo XIII; poichè è costrutto di opera saracinesca, e Nicolò IV in un breve dato l’anno 1290 lo ricorda come già occupato da que’ religiosi. La chiesa, sebbene rinnovata, è di una origine più antica, poichè il Casimiro nelle Memorie Storiche de’ Conventi de’ Frati Minori, ricordate più volte, asserisce, che nella sagrestia leggevasi sopra un’architrave di legno la data dell’anno MVIII. e che si scoprì nell’anno 1738 uno croce stazionaria di marmo con varii ornamenti di musaico. Questa chiesa fu consagrata di nuovo l’anno 1581 dal vescovo di Segni Giuseppe Pamfilj. Di là da questa chiesa apresi a sinistra la strada che va direttamente a Palestrina, traversando la contrada delle Quadrelle, e passando pel ponte dello Spedalato, lunga circa 5 miglia.

La Terra sorge isolata, siccome venne indicato di sopra, sopra un colle di tufa vulcanico dirupato, meno ne’ luoghi fatti più agiati per gli accessi: la sua pianta riducesi ad una ellissi irregolare: è cinta di mura munite di torri quadrangolari, opere de’ tempi bassi, in parte smantellate, in parte ridotte a case ed altri usi moderni. Salendovi, a sinistra, è la chiesuola detta della Vergine delle Grazie, che per lo stile, e la costruzione ricorda il secolo XI. La porta, antica anche essa, ma rinnovata nel secolo XIII. presenta l’Eterno Padre: il mistico T che vi si vede espresso è prova che un tempo questa chiesa appartenne ai monaci dell’ordine di s. Antonio Abbate. Entrando nella terra, di antico rimarcansi, molti massi quadrilateri di tufa locale, avanzi delle antiche mura, impiegati nelle costruzioni moderne, ed alcuni sembrano al posto loro, qualche vestigio di opera reticolata, ed un sarcofago del tempo di Settimio Severo, ridotto a fontana publica, sul quale veggonsi espressi a bassorilievo tre Genii che reggono encarpj, o festoni. Le case sono generalmente di opera saracinesca e ricordano il secolo XIII. Si direbbe che in gran parte la terra fosse riedificata dopo che Riccardo Conti ne fu investito l’anno 1208. Il palazzo fu edificato dal principe Camillo Pamfilj l’anno 1662; esso è vasto, magnifico, ma negletto. La facciata sua principale è rivolta alla piazza maggiore, donde verso mezzodì si apre una veduta bellissima e vasta: l’occhio rapidamente percorre il tratto limitato dalle punte dell’Algido, e da quelle del Lepino: presentasi da lungi verso occidente Rocca Priora che ricorda l’antica Corbio: pian piano avanzandosi verso mezzodì riconosconsi il monte Artemisio, e l’Algido, e spalancasi la valle e palude pontina: di fronte presentasi la catena del Lepino e sotto di quella Monte Fortino, l’Artena de’ Volsci, e di fianco verso oriente Gavignano, Gabinianum de’ tempi romani. Verso l’angolo orientale della piazza comincia la facciata della chiesa principale, che è collegiata e dedicata alla Vergine Assunta in cielo. Essa fu riedificata di pianta dal principe Gio: Battista Pamfilj. figlio di Camillo sovrallodato in quattro anni, dal 1685 al 1689, servendosi per architetto di Mattia de Rossi, allievo ed amico del Bernini, come può leggersi in Pascoli: ed è ornata di pitture di Giacinto Brandi, Ciro Ferri, Agostino Silla, ed altri rinomati artisti del secolo XVII. Magnifica e vasta n’è la mole, che singolarmente contrasta colla modestia delle abitazioni della Terra: la pianta è bella, e semplice, essendo una ellissi: bella pure è la cupola che la sormonta; ma i particolari risentono gli effetti dei gusto di quel secolo corrotto.

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