Solfarata e Solfaratella – Lucus et Oraculum Fauni

[t. 3, pp. 99-103]

Castrum Solpheratae.

Solfarata e Solfaratella oggi sono due tenute insieme unite, come un tempo furono disgiunte, e primieramente una sola ne formarono. Questo tenimento è fuori di porta s. Paolo, ed il casale è circa 15 m. distante da Roma, sulla via ardeatina: confina con quelle di Monte Migliore, Monte di Leva, Magione, Magionetta, s. Procula, Capannone, Sughereto e Tor Maggiore: comprende rubbia 335 e mezza circa, divise nei quarti denominati del Casale, della Torre, e Quartaccio. Il suo nome data almeno fin dal principio del secolo XIII. e deriva dalle cave di zolfo che ivi si trovano. Nella bolla di papa Gregorio IX. inserita nel Bullarium Lateranense p. 72, frai fondi che si descrivono come spettanti allora a s. Giovanni Laterano, cioè l’anno 1227, leggesi notato il Castrum Solpheratae; ed allora sembra che uno solo fosse il tenimento, e che questo avesse un castrum, o casale cinto di usura secondo il costume di que’ tempi. Ma questo tenimento in seguito si divise in due, denominati Castrum Sulferata, e Castrum Sulferatella: e quello di Sulferata fin dal primo periodo del secolo XIV. apparteneva ai Leoni almeno per metà, mentre l’altro era del Capitolo Lateranense. Imperciocchè in un istromento esistente nell’Archivio di s. Maria in Via Lata, e riportato nel codice vaticano 8050 si legge che nell’anno 1314 la metà del castrum Sulferatae colla rocca, co’ palagi, colle case, e co’ vassalli fu da Giovanni di Leone, che n’era signore, venduta, e si dice che tutto intiero quel castro, con tutto intiero il suo tenimento era posto nella diocesi di Albano fra questi confini: il tenimento del castrum Montis Olibani, (Monte di Leva), quello del castrum Sulferatellae di s. Giovanni Laterano, quello del casale di Zalfardine de’ Savelli, quello del casale la Masone di s. Maria Aventina, e quello del casale di s. Proculo del monastero di s. Paolo: confini sono questi analoghi a quelli de’ due tenimenti oggi insieme uniti. Quel Giovanni di Leone possedeva allora da queste parti altre terre che pure vendette, come, la metà di Peronile, oggi s. Petronella, e la metà del casale de’ Tineosis oggi Tor Tignosa. Solfarata venne fin dal secolo XVII. in potere degli Altieri, unitamente a Solfaratella che fu loro venduta dal Capitolo Lateranense, e così di nuovo si venne a ridurre ad un solo fondo. Ho notato poc’anzi che allorquando Giovanni di Leone vendette la metà di questo tenimento esso era un castro con rocca, palazzi, e case, era in sostanza un castello abitato; oggi però non vi sono che quattro case poste sopra un ripiano di un colle dirupato, e vestito di arbusti imminente alla via ardeatina circa il XV. m. distante dalla porta antica; ed a questa distanza medesima nella stessa direzione leggesi in Anastasio Bibliotecario nella vita di Adriano I. che quel papa fondò un aggregato di case rustiche, che allora appellavano domus culta, e che fu distinto col nome di Calvisianum, perchè antecedentemente ivi era un fundus Calvisianus già proprietà della gente Calvisia: e quella domusculta secondo lo stesso Bibliotecario fu da quel papa donata alla basilica lateranense. Questo fatto ci fa conoscere la origine del dominio del Capitolo Lateranense sopra questa tenuta. E tale è la situazione di questo casale, che reca meraviglia come non vi si sia mantenuto un villaggio: esso è in una situazione elevata ed amena nel nodo di parecchie vie, una che da Albano vi porta per Tor del Vescovo, e Tor Tignosa: l’altra che è la via ardeatina antica, oggi abbandonata, la quale uscendo da porta s. Sebastiano vi conduceva passando per la Cecchignola, s. Anastasio, Falcognano, e Tor di Nona: la terza è la strada moderna di Ardea che uscendo dalla porta s. Paolo di Roma passa per Schizzanello e Monte Migliore: la quarta è quella che da questo punto devia a destra per Pratica, o Lavinium, e la quinta è quella che da questo punto medesimo conduce direttamente ad Ardea, e da Ardea a Tor s. Lorenzo e Nettuno.

Dinanzi a questo casale verso occidente è una specie di cratere dove si cava il solfo, cratere che presenta tracce evidenti di essere stato un tempo imboschito ed una verdura piuttosto fosca, sopra un suolo biancastro pregno di zolfo: sotto il casale è un antro: ed un laghetto oggi scomparso ivi formava ne’ tempi passati una caduta, che ancora può tracciarsi: nè quel laghetto è una supposizione, poichè a’ tempi di Ameti, esisteva ancora, ed egli lo delineò nella sua Carta. Riconducendoci pertanto ai tempi primitivi del Lazio, questo cratere di un vulcano allora non ancor bene estinto, coperto da un’alta selva, dovea incutere rispetto e terrore; quindi le italiche genti ne fecero la dimora del nume loro nazionale, Fauno, che in quell’antro rendeva i suoi oracoli per mezzo di sogni, onde Virgilio nel settimo della Eneide lo fa consultare dal re Latino, e mirabilmente descrive il luogo in que’ versi, che stimo di qui inserire:

At rex sollicitus monstris oracula Fauni

Fatidici genitoris adit, lucosque sub alta

Consulit Albunea, nemorum quae maxima sacro

Fonte sonat, saevamque exhalat opaca Mephitim.

Hinc italae gentes, omnisque Oenotria tellus

In dubiis responsa petunt.

Ma quel nome di Albunea fu un inciampo pe’ grammatici del V. secolo, e pe’ dotti moderni, che andarono a porre quel luco e quell’oracolo presso la Solfatara, o il lago delle acque Albule sulla via tiburtina. Il luogo però così poco corrisponde alla descrizione di Virgilio, che perfino il Volpi, seguace di quella opinione ne rimase sorpreso. D’altronde io credo assai naturale, che essendo stato Fauno un re degli Aborigeni, che occuparono sopra i Siculi il Lazio marittimo, ossia l’Agro Laurente, fosse sepolto in una caverna in questo medesimo tratto, dove poi fu stabilito il suo oracolo. Il modo di consultarlo viene da Virgilio stesso indicato come una oneiromanzia: sagrificavansi pecore, e sopra le pelli lanute delle vittime uccise si poneva a dormire quello che consultava il nume, il quale faceva conoscere le sue predizioni, o per mezzo de’ sogni, o per mezzo delle voci che udivansi romoreggiare nel bosco. Albunea si chiamava la selva profonda, e tetra, selva alta, vastissima, che copriva il cratere ed univasi con quelle immense che allora vestivano intieramente, come oggi tuttora ricoprono in gran parte il littorale latino. La caduta che faceva il fonte di acque calde e sulfuree dava un suono che accresceva il mistero: l’antro che ancora rimane, forse quello del sepolcro di Fauno, ricorda una delle antichità primitive del Lazio, dove ponevasi a dormire colui che aspettava risposte dal nume. La ceremonia eseguivasi di notte, sub nocte silenti dice Virgilio, perchè nella notte maggiore è il mistero.

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