Palestrina, Praeneste

[t.2, pp. 475-515]

Civitas Praenestina – Pellestrina

Pinestrino – Penestre

Città situata ad oriente di Roma alla latitudine di 41°, 50′, 18″ 7, ed alla longitudine di 30°, 32′, 55″, 2; alta dal livello del mare piedi parigini 1628, 5. Essa è sede vescovile, una delle sei suburbicarie, distante da Roma 24 miglia, posta nella Comarca, e parte del distretto di Tivoli: racchiude 4378 abitanti. E’ appoggiata alla falda di un monte, che è uno degli ultimi contraforti dell’Appennino, nel quale va a terminare il monte Glicestro.

Negli scrittori classici leggonsi tre etimologie del suo nome antico: Plutarco Parall. n. 41 e Servio ad Aen. lib. VII. v. 678 lo derivano dalla voce greca … , elci, per l’abbondanza di tali alberi: Festo dall’essere dinanzi, o addossata ai monti, quia …. montibus praestet, e la stessa etimologia per testimonianza di Servio avea dato Catone: finalmente Solino c. VII. e Stefano in …. da Prenesto figlio di Latino, nato di Ulisse e di Circe. Fondatore, secondo Virgilio l. c. ne fu Ceculo figlio di Vulcano, stipite della gente Cecilia; stando a tal tradizione d’uopo è stabilire che questa città fu fondata circa i tempi, in che Enea venne in Italia, poichè Ceculo insieme cogli altri principi latini prese le armi contro quel profugo. Altrove però lib. VIII. v. 560 e seg. lo stesso poeta fa dire ad Evandro di aver ucciso nella sua gioventù il re Erilo Praeneste sub ipsa; ma quel passo induce a credere che Erilo regnasse in queste contrade prima di Ceculo, senza però che di necessità segua che prima di Ceculo Preneste fosse stata fondata, da che deriverebbe una contradizione in Virgilio; imperciocchè il monte e la selva di elci, che lo copriva poteva avere di già presso gli Aborigeni e Pelasgi il nome di Preneste, che poi Ceculo diè alla città ivi fondata. Debbo inoltre fare osservare la moltiplice forma del nome Erilo che per testimonianza del dottissimo Heyne si trova nei manoscritti di Virgilio, cioè Herilum, Erilum, Erylum, Erulum, Elinum, Cerilum, Acerilum, Helenum, Athericum. Solino ricorda un’altra tradizione seguita da Zenodoto, dalla qualle apparisce che Preneste era stata edificata dal nipote di Ulisse: aggiunge però, che i libri prenestini davano per fondatore Ceculo fanciullo rinvenuto presso fuochi fortuiti, apud ignes fortuitos, donde derivò la tradizione che Ceculo era figlio di Vulcano.

Strabon lib. V. c. III. S. II. dice che Tibur e Praeneste credevansi ambedue città greche, e che Preneste dapprima fu chiamata …. , cioè di molte corone, nome che potrebbe derivarsi dai vari recintii di mura che la cingevano. Latino Silvio terzo re di Alba la ridusse sotto il suo dominio, come si apprende dall’autore dell’Origo Gentis Romanae, e vi mandò una colonia, la quale rimase fedele alla metropoli, finchè questa non fu soggiogata e distrutta da Tullo Ostilio. Dopo quella epoca si resse da se, nè si ricorda più il suo nome fino all’anno 255 di Roma, in che i Prenestini pongonsi da Dionisio lib. V. c. LVI. fra i popoli latini che si collegarono insieme per ristabilire i Tarquinii. Due anni dopo però, poco prima della battaglia al lagob Regillo Livio lib. II. c. XIX. narra, che Preneste si distaccò dalla lega e riaccostossi ai Romani: Praeneste ab Latinis, ad Romanos descivit. E questo loro riavvicinamento fu così sincero, che le loro terre andarono soggette alle depredazioni degli Ernici, e dei Volsci l’anno 291. siccome narra Livio lib. III. c. VIII. Venuta però meno la forza romana per la invasione dei Galli, i Prenestini si lasciarono sedurre dai Volsci, e si collegarono con loro a danno di Roma l’anno 372. facendo scorrerie nel territorio dei Tusculani, dei Gabini, e dei Lavicani. Dapprincipio i Romani non volevano credere a questa defezione; ma nell’anno 374, essa divenne aperta , poichè i Prenestini spedirono truppe ausiliarie ai Volsci, le quali combatterono contro i Romani sotto Velletri con tale accanimento da separare i Veliterni stessi, secondo la relazione, che ne fecero i tribuni militari al senato; quindi fu loro colle formalità più solenni dichiarata la guerra. Livio dice su tal proposito lib. VI. c. XXI. XXII. Senatus consulto, populique iussu bellum Praenestinis indictum. Ma i Prenestini non si sbigottirono, poichè uniti ai Volsci assalirono e presero Satrico, colonia romana, e vilmente usarono della vittoria sopra i coloni. Camillo, scelto a dirigere le legioni contro di loro, malgrado la sua età avanzata li ruppe presso le mura della colonia stessa, da loro testè conquistata, ma non pervenne ad ultimare la guerra. Imperciocchè l’anno seguente, profittando i Prenestini delle dissensioni intestine dei Romani uscirono in campo, devastarono le terre nemiche, ed osarono attendarsi presso la porta Collina, e quindi sulle ripe dell’Allia; essi credevano che quell’infausto fiume dovesse esser sempre testimonio della sconfitta dei Romani, e frattanto misero a sacco tutte le terre circonvicine. T. Quinzio Cincinnato, che fu eletto allora a dittatore, in venti dì li mise in rotta, e li inseguì fino a Preneste, espugnò otto terre fortificate dipendenti da loro, prese Velletri sui Volsci, e forzò Preneste ad arrendersi: di là trasportò in Roma sul Campidoglio la statua di Giove Imperadore, che come trofeo fu collocata entro il tempio di Giove Capitolino fralle celle di Giove e di Minerva, con una iscrizione che denotava le castella da lui conquistate.

Rimase ambigua la loro fede poichè nel 376 corse fama, che si erano ribellati di nuovo, e che mettevano in movimento gli altri popoli latini.

Mantennero i Prenestini la pace fino all’anno 416, in che si collegarono coi Tiburtini e coi Veliterni a difesa dei Pedani contra i Romani. Livio lib. VII. c. XII. Furono vinti sotto Pedo stesso l’anno seguente  da Lucio Furio Camillo, e nelle disposizioni prese dai Romani in quello stesso anno a riguardo dei popoli della lega latina, che aveano preso le armi contro di loro, fu stabilito, che i Prenestini, come i Tiburtini venissero multati di una parte delle terre.

L’anno di Roma 473, Pirro avanzandosi per la via latina verso Roma, dopo aver devastato la Campania, le rive del Liri, Fregelle, ed il paese degli Ernici, salì sulla cittadella di Preneste, onde incutere timore ai Romani, e prendere una idea giusta delle vicinanze della città: Floro lib. I. c. XVIII: Eutropio lib. II. Spaventato però dalla difficoltà della impresa, ricondusse le sue genti nella Italia meridionale. Narra Zonara, che in quella circostanza, i principali dei Prenestini furono, come ostaggi, trasportati in Roma, e chiusi dentro l’erario, e che così avverossi un oracolo, il quale diceva, essere di mestieri, che l’erario romano fosse occupato dai Prenestini. Dopo quella epoca fino all’anno 536 non si ricordano più nè i Prenestini nè Preneste, ad eccezione dell’aneddoto riferito da Valerio Massimo lib. I. c. IV, che il senato proibì al console Lutazio, quello stesso, che vinse i Cartaginesi alle isole Egadi e pose termine alla prima guerra punica, di consultare le sorti della Fortuna Prenestina, giudicando doversi amministrare la republica cogli auspici patrii, e non cogli stranieri.

Nell’anno 536 i Prenestini non giunsero in tempo a partecipare della battaglia di Canne: appena aveano oltrepassato Casilino, che incontrarono i corrieri, i quali apportavano quella infausta notizia, quindi tornarono indietro per acquartierarsi in Casilino, insieme con altri distaccamenti di Romani e Latini, che si trovavano di passaggio: Livio lib. XXIII. c. XVII, che narra questo fatto, dice che i Prenestini erano in numero di 600, comandati da Manicio. In quel terribile frangente, avvedutisi, che gli abitanti avrebbero aperte le porte al vincitore furono portati dalla necessità ad ucciderli, e si fortificarono nella parte cis-volturnina della città, dove si ridusse pure la coorte perugina di 460 uomini. E circa il numero dei Prenestini, Livio che nel c. XVII. lib. XXIII. dice che erano 500, nel capo XIX dice, che erano 570: Strabone lib. V. c. IV. narra che erano 540: Valerio Massimo poi lib. VII. c. VI. S. 3 ne restringe il numero a 300. Questo pugno di soldati arrestò le conquiste, e le vittorie di Annibale, fece per varii mesi una difesa eroica, e forzato dalla fame ottenne dal vincitore patti onorevoli. I Prenestini ridotti a metà, mietuti in parte dal ferro, in parte dalla fame, tornarono liberi a Preneste col loro pretore Manicio, nome che io dubito doversi leggere piuttosto M. Anicio, cioè Marco Anicio, essendo d’altronde molto probabile, che prenestina fosse quella illustre famiglia romana, che tanto figurò nei tempi della decadenza dell’impero. Ora a Manicio, o piuttosto M. Anicio fu eretta nel foro prenestino una statua loricata, avvolta nella toga, e velata: il senato romano volendo ricompensare il valore di quei prodi assegnò loro stipendio doppio, cinque anni di esenzione dal servizio militare, ed i diritti della cittadinanza romana; onore, che da loro fu ricusato, preferendo piuttosto la indipendenza patria, che appartenere ad un municipio estraneo, malgrado i privilegii ed i vantaggi che ne avrebbero potuto ritrarre.

Nell’anno 543 a Preneste si unirono gli eserciti dei due consoli Marco Livio, e Caio Claudio Nerone, onde andare ad opporsi ad Asdrubale sul Metauro, dove quel fratello di Annibale venne disfatto ed ucciso. Conchiusa la pace coi Cartaginesi, pace, che pose fine alla seconda guerra punica, e fu la base della potenza romana, Preneste nel 557 corse grave periglio, per la cospirazione tramata dagli schiavi, e ricordata da Livio nel libro XXXII, la quale finì colla morte di 500 colpevoli. Nell’anno 581. narra Livio lib. XLII. c. I, che Lucio Postumio Albino console, volendo vendicarsi della freddezza mostratagli dai Prenestini, mentre era privato, allorchè andò a fare un sagrificio alla Fortuna, prima di uscir da Roma, mandò lettere a Preneste, perchè gli venisse incontro il magistrato, gli preparasse un pubblico alloggio, e tenesse pronti i trasporti allorchè partiva, esigenza strana, imperiosa, ed alla quale secondo le leggi avrebbero potuto ricusare di sottomettersi; nulladimeno modestamente vi si adattarono.

Nella guerra sillana Preneste andò soggetta ad un eccidio; imperciocchè, essendosi ritirato in essa il giovane Mario dopo la battaglia di Sacriporto coi rimasugli della sua gente, Silla affidò a Lucrezio Ofella la cura di circonvallare la piazza. Malgrado i tentativi di Carbone, e di Ponzio Telesino per liberarlo, ed il valore da lui e dalle sue genti mostrato nelle sortite, l’assedio non fu tolto: e dopo la rotta dei Mariani e dei Sanniti collegati, avvenuta presso la corte Collina, e la proscrizione atroce che ne fu la conseguenza, non rimanendo altro scampo, Preneste si arrese a discrezione; onde Mario procurando di salvarsi per mezzo di uno dei tanti cunicoli, che foravano il monte, trovandosi stretto dalla necessità, si fece uccidere dal suo servo, o secondo altri si uccise da se medesimo, o fu dai soldati sillani spento. E dopo questo fatto Silla assunse il cognome di Felice. Veggansi Livio Epit. l. LXXXVIII. Vellejo lib. II. c. XXVII. Strabone, Plutarco, Dione, ec. Silla avuto l’avviso da Ofella della resa della città, si portò direttamente a Preneste, dove si mise a processare ciascun abitante circa la condotta antecedentemente tenuta, e molti ne punì: ma stanco della formalità dei giudizii, fè raccogliere insieme i 12000 cittadini che ne rimanevano, e spietatamente li mandò a morte; onde Lucano Phars. lib. II. v. 193 ebbe ad esclamare:

Vidit Fortuna Colonos

Praenestina suos cunctos simul ense recepto

Unius populum pereuntis tempore mortis.

In tal circostanza si narra, che volendo accordare la vita ad uno, che era stato suo ospite, questi isdegnandosi di dovere la vita allo sterminatore della patria, postosi nella turba si fece uccidere volontariamente. Egli distrusse la città, ed ingrandì sulle rovine di questa il tempio della Fortuna. E ne fondò una nuova nella pianura sottogiacente, che mise nel rango delle colonie, e che popolò di soldati veterani, e dei ragazzi prenestini scampati dallo scempio.

E come colonia la nominarono Cicerone e Frontino; al primo di questi scrittori si dee la notizia, che Catilina se ne voleva rendere padrone, considerandola come luogo di molta importanza. Nella guerra fra Ottavio, e Lucio Antonio, la colonia prenestina abbracciò il partito di quest’ultimo, che vi si ritirò insieme con Fulvia e coi figli del suo fratello Marco. Preneste però non ebbe a soggiacere a nuove disgrazie per questo; che anzi Augusto divenuto possessore pacifico dell’impero, amò molto il soggiorno di questa città, siccome si trae da Svetonio nella sua vita c. LXXII; e questo biografo dei Cesari narra che quell’imperadore vi andava ordinariamente in lettiga e di notte e con tanta lentezza, che faceva la strada in due giorni: onde è da credersi, che probabilmente la prima sera si fermasse a Gabii che era a mezza strada. Molto la frequentò ancora Orazio, il quale la nomina fra i luoghi prediletti, insieme colla sua villa sabina, con Tibur e con Baja: Odar. lib. III. Od. III. e dove rilesse la Iliade, siccome afferma nella seconda epistola del libro I. a Lollio. Tiberio essendosi risanato da una malattia mortale nel territorio di questa città, la portò di nuovo al grado di municipio. Gellio Noct. Att. lib. XVI. c. XIII. Sotto Nerone, per testimonianza di Tacito lib. XV. c. XLVI, i gladiatori ivi stanziati cercarono di sollevarsi, ma furono repressi dalla guarnigione, che li custodiva. Domiziano si portava in Preneste ogni anno nell’anniversario del suo impero, onde consultare le sorti prenestine. Adriano vi edificò una villa di che ancora si conservano le rovine presso la chiesa rurale di s. Maria denominata perciò della Villa, dove Marco Aurelio secondo Capitolino nella sua vita vi perdè Vero cesare suo figlio in età di sette anni. Grande affluenza di gente accorreva a Preneste per consultare le sorti della dea, e da questa molte ricchezze ne ricavava; ma dopo che le leggi di Costanzo, e Teodosio proibirono con pene severe questo rito, e fecero chiudere il tempio, la città necessariamente decadde.

La storia di Preneste dalla fine del secolo IV. fino all’anno 752 non presenta memorie degne di un rilievo particolare. In quell’anno però Astolfo re dei Longobardi si mosse contro Roma con sei mila soldati ed occupò per capitolazione Todi e Preneste, siccome ricavasi da un documento originale inserito dal Petrini nelle sue Memorie Prenestine. Frattanto la città andava insensibilmente cangiando nome, ed al primitivo si andava sostituendo il derivativo per l’uso che nelle decadenza dell’impero prevalse; imperciocchè in luogo di Praeneste dicevano Civitas Praenestina, come in luogo di Lanuvium, Civitas Lanuvina: da Praenestina facilmente per corruzione scambiossi il nome in Palestrina, del quale ho trovato memorie fin dall’anno 873 della era volgare.

Nell’anno 970, questa città fu infeudata da papa Giovanni XIII. a Stefania sua sorella madre di Benedetto conte tusculano, col canone di dieci scudi di oro, siccome si ha dalla bolla emanata a tale proposito, nella quale si determinano per confini del territorio, il Rio Largo, la via labicana, il monte Massimo, il ponte Cicala, l’Acqua Alta, la valle di Camporazio, ed il monte Folinario, o piuttosto Faustiniano. A Stefania successe il figlio Benedetto, il quale ebbe per successori i due figli suoi Giovanni e Crescenzio l’anno 1010: questi incorsero nello sdegno di Benedetto VIII, e Giovanni, che si intitolava marchese e duca, si vide costretto a ritirarsi nella rocca di Preneste, dove fu stretto di assedio nell’anno 1012, e non fu liberato, se non dopo che ebbe promesso di cedere la rocca al papa, siccome si trae dalla cronaca farfense inserita nei Rer. Ital. Script. T. II. P. II. col 552. La pace fu conchiusa l’anno 1055 definitivamente, ed il marchese Giovanni rimase possessore pacifico di Preneste. Papa Damaso II. nel 1018 non istimando cosa sicura l’entrare in Roma per timore degli aderenti dell’antipapa Benedetto IX. si ritirò in Preneste, dove poco dopo morì.

Nell’anno 1043, morto il marchese Giovanni, Emilia sua sorella, che ebbe il titolo di contessa e che gli era succeduta nel dominio di Palestrina essendosi maritata in seconde nozze con un personaggio della famiglia de Columna, che è lo stipite noto della famiglia di questo nome, trasferì in esso e nella discendenza, che ebbe la infeudazione di questa città, malgrado le condizioni poste nel 970 da Giovanni XIII. allorchè la infeudò a Stefania sua sorella, cioè che non dovesse trascendere i suoi nipoti, vale a dire che la linea veniva ad estinguersi appunto in Emilia. Lo sconvolgimento, che regnava in quella epoca in tutto il distretto di Roma non permise subito di rivendicare questa usurpazione; sebbene nel 1059, papa Nicola II, volendo abbassare la potenza dei conti tusculani e dei signori di Lamentana, e di Galera, loro affini e collegati, chiamasse in suo soccorso i Normanni, che si erano annidati nella Puglia, e questi mettessero a ferro e fuoco il territorio dei Prenestini, dei Tusculani, dei Nomentani e del conte di Galera, siccome attesta il card. di Aragona nella vita di quel pontefice, presso il Muratori Rerum Italicarum Scriptores T. III. P. I. pag. 301. Morta nell’anno 1080 la contessa Emilia, ed estintasi in lei la infeudazione di Giovanni XIII. a favore di Stefania, papa Gregorio VII. incluse l’agro prenestino nella bolla di scomunica contro chi tentasse di usurpare, o ledere le terre della Chiesa Romana, bolla che è inserita dal Platina nella sua vita.

Ma Pietro della Colonna figlio di Emilia e parente dei conti tusculani non si sottomise tanto volentieri a cedere la investitura ottenuta da Stefania sua bisavola, e dopo la morte di Gregorio VII. l’anno 1101 insorse contro Pasquale II. ed occupò Cave, che fu a lui ritolta dal papa. Nel 1108 però unitosi Pietro con Tolomeo conte tusculano assalì e prese Preneste stessa, imprigionò Berardo Marsicano spedito contro di lui, facendolo chiudere in una cisterna: ed egli ritenne la città, circa un anno. Dopo questo fatto tornando papa Pasquale II. dal regno di Napoli recuperò Preneste e nel 1117 vi dedicò la cattedrale ad onore di s. Agapito martire. In tale circostanza furono da lui ricevuti in questa città gli ambasciatori dell’imperatore di Oriente. Veggasi Pandolfo Pisano nella vita di Pasquale II. presso i Rerum Italicarum Scriptores T. III. P. I. col. 356 e 359, e Giovanni da Segni nella vita di Berardo Marsicano presso l’Ughelli Italia Sacra T. I. col. 896. L’anno seguente però, dopo la morte di Pasquale II, Pietro rioccupò la città di Preneste, secondato sempre dai conti tusculani, e profittando dei torbidi di Roma, che accompagnarono la elezione di papa Gelasio II.

Leggendosi nella storia di Milano c. XI. pubblicata nei Rerum Italicarum Scriptores T. V. p. 512, che l’antipapa Anacleto II. elesse per vescovo prenestino un Giovanni, d’uopo è credere, che i Colonnesi almeno tacitamente seguissero le parti di quell’antipapa: ma nell’anno 1137 le abbandonarono, e papa Innocenzo II si fermò in Palestrina insieme coll’imperatore Lottario II. Ristabilissi nel 1143 in Roma il governo popolare, e di nuovo fu installato il senato per opera di Arnaldo da Brescia: una delle prime operazioni di quelli, che erano stati posti a governare la nuova repubblica, fu di muovere guerra ai popoli del Lazio, onde riconoscessero il nuovo reggimento, e Preneste non andò esente da guasti; non pare tuttavia, che fosse soggiogata. Imperciocchè nel 1149 ritornato in Italia papa Eugenio III. e cercando di sottomettere di nuovo con le armi il popolo romano, si andò trattenendo per qualche tempo nelle città circonvicine, che aveano conservata la loro indipendenza e particolarmente in Preneste, di che era signore Oddone della Colonna figlio di Pietro. I Romani continuarono interrottamente, ma sempre con accanimento la guerra contro le città circonvicine, particolarmente del Lazio, e finalmente pervennero nel 1184 a prendere di assalto Preneste, e la incendiarono. Veggasi la cronaca di Fossa Nuova presso i Rerum Italicarum Scriptores T. VII. Venuti poscia a concordia nel 1188 con papa Clemente III. dichiararono, che il popolo romano non avea dominio diretto sopra la città di Palestrina.

Ritornò tosto sotto i Colonnesi, e nel 1201 ne erano signori Giordano ed Oddone, figli di Oddone seniore, ricordato poc’anzi, i quali nel 1203 accolsero papa Innocenzo III, che disgustatosi dei Romani si portò in Palestrina. Nella cronaca genovese inserita nella raccolta sovrallodata dei Rer. Ital. Script. T. IX. c. LVI. leggesi, che circa l’anno 1209 i Colonnesi si ripararono nella città prenestina, che avea fama di essere fortissima. L’anno 1241 il cardinale Giovanni Colonna, abbandonando il partito papale si volse a sostenere quello di Federico II. il quale spedì a di lui sostegno alcune truppe: quindi il territorio prenestino andò esente dalle devastazioni, alle quali quel cesare sottopose le altre terre dei contorni di Roma. Narra Bernardo Guidone nella vita di Martino IV. inserita dal Muratori nella sua raccolta dei Rerum Italicarum Scriptores T. III. P. I. p. 609, che accesasi in Roma la guerra civile nel 1280 fra gli Orsini e gli Annibaldesi, i primi si ritirarono a Palestrina: gli Annibaldesi pertanto l’inseguirono fino sotto alle mura di questa città, mettendo a sacco tutto il contado e facendo strage di molti. Questo medesimo fatto, secondo Albertino Mussato nella vita di Enrico VII. inserita nella raccolta sovrallodata T. X. col. 455. si ascrive all’anno 1281.

Frattanto una tempesta terribile sovrastava a questa città: ad Oddone III. figlio di Giordano di lui fratello, ed a questo il figlio suo Giordano II: a questi nacquero cinque figli: Giacomo cardinale, Giovanni, Oddone, Matteo, e Landolfo. Di Giovanni, che morì prima dell’anno 1297, furono figli Pietro cardinale, Stefano, Giovanni, Giacomo, soprannomato Sciarra, Oddone ed Agapito. Questi essendo eredi diretti del dominio di Palestrina si appoggiarono al loro zio Giacomo cardinale: ed al contrario Oddone, Matteo, e Landolfo, pretendendo avere parte nella successione di Giordano II. si rivolsero a papa Bonifacio VIII. Ma volendo il papa obbligare i primi ad una concordia coi loro zii, e nello stesso tempo mettere un presidio in Palestrina per timore dell’aderenza, che i Colonnesi aveano con Federico di Aragona re di Sicilia, ne seguì una rottura formale. I Colonnesi sovraindicati, compresi i due cardinali Giacomo e Pietro, si ritirarono in Palestrina e si posero in piena insurrezione contro il papa, e questi dal canto suo pubblicò contro loro in data dei 14 dicembre 1297 una bolla di crociata, accordando indulgenza plenaria a chiunque avesse preso le armi contro i Colonnesi, e contro Palestrina; e questa bolla come molte altre in quella occasione pubblicate si legge nel Petrini, Memorie Prenestine pag. 419 e seg. Bonifacio avea dichiarato capitano contro i Colonnesi insorti Landolfo Colonna, uno dei pretendenti; ed avendo raccolto un esercito grande per quei tempi, ed ottenuto aiuti da Firenze, da Orvieto, e da Matelica, nel 1298 occupò tosto tutte le terre dei Colonnesi, meno Palestrina, dove si ridussero Agapito e Sciarra insieme coi cardinali Giacomo e Pietro. Dopo una difesa ostinata e valorosa, i quattro Colonnesi si videro costretti alla resa, e portatisi a Rieti, dove il papa allora dimorava si presentarono vestiti a bruno dinanzi a lui in pieno concistoro; il papa ad insinuazione del conte Guido da Montefeltro, che avea vestito l’abito francescano, non solo li perdonò e gli assolvette dalle censure, ma ancora fece loro sperare di mantenerli in possesso della città. Dante che fu contemporaneo a questo avvenimento fa con gravi caratteri narrare a Guido stesso questo fatto nell’Inferno, canto XXVII. v. 67. Veggasi inoltre su tal proposito quello, che narrano Ferretto Vicentino nei Rer. Ital. Script. T. IX. p. 970, e Giovanni Villani nelle Storie lib. VIII. c. XXI. e seg. Tenne Bonifacio il consiglio datogli da Guido: lunga promessa con l’attender corto; imperciocchè ordinò a Teodorico Ranieri da Orvieto, vescovo eletto di Pisa, allora camerlengo di santa Chiesa, che andasse a prender possesso della città, e la facesse smantellare e distruggere fin dalle fondamenta, ad eccezione della chiesa cattedrale. Quest’ordine venne eseguito con tutto il rigore, e secondo l’antico rito, l’aratro solcò le rovine della città distrutta, e vi fu sparso il sale: e a maggior pena i beni degli abitanti vennero confiscati, accordando loro per grazia, che potessero ricoverarsi ivi dappresso nella pianura, nei dintorni della Madonna dell’Aquila.

La borgata di tugurii, che si formò in tale occasione ebbe il nome di Civitas Papalis; ma nel 1300, appena nata, per disposizione dello stesso papa venne atterrata ed arsa, siccome si legge in un documento riferito dal Petrini p. 426, ad eccezione della cattedrale e di poche case a quella adiacenti. Con altra bolla del 22 aprile 1301 lo stesso papa dichiarò, che i Colonnesi da lungo tempo possedevano ingiustamente questo feudo, essendo spirato il termine della investitura, e che per pubblico istromento aveano riconosciuto questo fatto Matteo, Giovanni, e Francesco Colonna. Questa bolla esistente nell’archivio segreto vaticano fu pubblicata dal Petrini alla pag. 428.

Morto però Bonifacio nel 1303, e succedutogli Benedetto XI. questi ai 23 dicembre assolvette i Colonnesi da molte di quelle pene, che avea contro loro fulminate il suo antecessore, restituì loro tutti i beni perduti, e solo restrinse tale indulto col proibire loro di riedificare Palestrina. Veggansi i documenti notati dal Petrini p. 153. Morì quel papa dopo aver governato la chiesa 8 mesi e 17 giorni. Nel lunghissimo conclave che seguì la sua morte, i Colonnesi l’anno 1304 si presentarono in Campidoglio e domandarono a Pietro Caetani la riparazione dei danni sofferti per opera di Bonifacio VIII. suo zio. Questa loro istanza si conserva nell’archivio vaticano, e si riporta dal Petrini alla p. 429 in questi termini. Relatio super facto Dominorum Columpnensium, et Dominorum Cajetanorum. Domini Columpnenses petunt quae sequuntur. Prima petunt restitutionem tituli Cardinalatus. Item dicunt in Civitate Penestrina quae totaliter supposita fuit exterminio et ruinae cum Palaciis suis nobilissimis et antiquissimus, et cum Templo magno et solemni quod in honorem Beatae Virginis dedicatum erat aedificatis per Julium Caesarem Imperatorem, cuius Civitas Penestrina fuit antiquitus et cum scalis de nobilissimo marmore amplis, et largis, per quas etiam equitando ascendi poterat in Palacium, et Templum praedicta, quae quidem scalae erant ultra centum numero. Palacium autem Caesaris aedificatum ad modum unius C propter primam literam nominis sui et Templum Palatio inhaerens opere sumptuosissimo et nobilissimo aedificatum ad modum S. M. Rotundae de urbe. Quae omnia per ipsum Bonifacium et eius tyrampnidem exposita fuerint totali exterminio, et ruinae, et cum omnibus aliis Palaciis, et aedificiis et Domibus eiusdem Civitatis, et cum muris antiquissimis opere Sarracenico factis de lapidibus quadris et magnis, quae sola dampna tam magna, et inextimabilia sunt, quod multa et magna bona non sufficerent ad refectionem ipsorum, nec aliqua ratione vel summa pecuniae, ut fuerunt refici propter magnam antiquitatem et nobilitatem operum praedictorum. Item in Castro Montis Prenestini, quod similiter totaliter dirui fecit, ubi erat Rocca nobilissima, et Palacia pulcherrima, et muri antiquissimi opere Sarracenico, et de lapidibus nobilibus sicut muri praed. Civitatis, et amplius erat Ecclesia nobilissima sub vocabulo Beati Petri, quae quondam Monasterium fuit, quae omnia cum omnibus Palaciis aliis et Domibus quae erant in Castro circa ducenta numero exposita fuerunt totali exterminio et ruinae.

Ho giudicato opportuno d’inserire questo importantissimo documento, perchè si ha in esso uno stato dei monumenti dell’antica Preneste sul finire del secolo XIII. ed una idea della terribile devastazione a che andarono soggetti. Domandarono inoltre i Colonnesi la rifazione dei danni per la distruzione delle altre loro terre della Colonna, Torre dei Marmi, Zagarolo, ec. Il Caetani fu condannato a pagare ai Colonnesi 100.000 fiorini d’oro, e questa sentenza fu inserita nello statuto di Roma; ma non si sa che avesse mai esecuzione. I Colonnesi vennero poscia da papa Clemente V. con bolla del 2 febbraio 1306, non solo assoluti pienamente ma abilitati a riedificar Palestrina, ed il vescovo cominciò di nuovo ad appellarsi Prenestino in luogo di Episcopus Civitatis Papalis, come ne apprendono vari documenti inseriti e notati dal Petrini p.154, e 439. La città e la rocca si andarono sollevando dalle rovine per opera di Stefano Colonna fin dall’anno 1307. Nel 1327 era già sufficentemente fortificata in guisa da poter resistere se si fosse presentata la occasione alle genti di Ludovico il Bavaro, essendovisi per testimonianza del Villani lib. X. cap. LXIX. ricoverato lo stesso Stefano Colonna che affisse contro di lui il processo fattogli da papa Giovanni XXII. Nel 1332 poi lo stesso Stefano diè compimento al ristauro ed alle fortificazioni di Palestrina e della rocca, siccome ricavasi dalla iscrizione esistente sulla porta della rocca medesima, e che riporterò più sotto, come io la copiai nel 1825. Vi si ritirò di nuovo nel 1346 insieme con altri Colonnesi onde sottrarsi allo sdegno del celebre Nicola di Rienzo, e vi si trattenne per tutto l’anno seguente, finchè durò il potere di quel tribuno. Ora essendo costui di nuovo salito al tribunato nel 1350 spedì Buccio de Giubileo, e Giovanni Caffarello a Stefano in Palestrina, perchè prestasse il suo omaggio: ma questi non solo non li ricevette, ma li fece arrestare; e mandò le sue genti a far scorrerie sul territorio romano. Onde il tribuno infierito mosse l’oste contro Palestrina e si attendò presso la chiesa di s. Maria della Villa, nel luogo che poscia fu detto il Campo. Vedendo però di non poterla prendere nè per assalto nè per fame si ritirò con animo di tornare ad assalirla. Ed infatti nel 1354 incaricò di questo assedio, come capitano del Popolo Romano, Riccardo degli Annibaldi, signore di Montecompatri, ma neppure esso pervenne ad impadronirsene: e poco tempo dopo, il tribuno fu ucciso particolarmente per le trame dei Colonnesi e delle altre famiglie potenti. La storia di questi fatti si legge nella vita di Cola di Rienzi inserita dal Muratori nel tomo III. delle sue Antiquitates Italicae Medii Aevi.

Nello scisma famoso di occidente i Colonnesi si attaccarono al partito di Pietro de Luna, e vollero far scorrerie nel territorio romano; ma cinti dalle truppe romane, pontificie, e napoletane, e posti sotto l’interdetto da Bonifacio IX. furono forzati a sottomettersi e nel 1401 fu conchiuso l’atto di concordia. Palestrina venne assediata da Ladislao re di Napoli nel 1414, che si ritirò per convenzione. Altro assedio ebbe a soffrire nel 1417, allorchè vi si ritirò Niccolò Piccinino, per parte dell’esercito romano e napoletano collegato condotto dal celebre Sforza, ma papa Martino V. di casa Colonna portato al soglio pontificio dal concilio di Costanza calmò tutti questi mali.

Ricominciarono i torbidi fra i Colonnesi ed il papa dopo la morte di Martino V. avvenuta nel 1431, torbidi che finirono con un trattato di concordia conchiuso nel 1433 con papa Eugenio IV. Tornarono ben presto i Colonnesi in discordia col papa nel 1434, essendosi dichiarati per Niccolò Fortebraccio; nell’anno seguente però si venne ad un nuovo atto di concordia, che fu egualmente di effimera durata, poichè avendo i Colonnesi mostrata opposizione ai voleri del papa, questi sdegnato contro di loro ne decretò lo sterminio e dichiarato capitano dell’esercito papale il cardinal Vitelleschi patriarca di Aquileia la fece assediare nel 1436, e questi dopo un assedio ostinato sen rese padrone a patti. Dapprincipio contentossi di porre un forte presidio nella piazza; ma nell’anno seguente 1437 per sospetti di nuova ribellione, il patriarca determinò di eguagliarla al suolo: prefisse agli abitanti sette giorni di tempo per isloggiare, permise loro di trasportare tanto le suppellettili quanto ancora i materiali delle case a loro arbitrio, scelse dodici capimastri dai rioni di Roma, e il dì di marzo diè principio al suo smantellamento, facendola spianare col ferro e col fuoco, e questa operazione continuò per quaranta giorni continui. Gli abitanti si dispersero nei paesi circonvicini, e molti si trasportarono in Roma. La cattedrale ancora fu smantellata: le campane, le porte, e le reliquie dei santi vennero dal Vitelleschi trasportate nella sua patria a Corneto: e così scorsi appena 139 anni dopo la prima distruzione, Palestrina trovossi di nuovo ridotta ad un mucchio di rovine informi. Rimase però per quell’anno in piedi la rocca; ma anche questa nel 1438 venne distrutta colla opera di Niccolò da Roma del rione Colonna, e di Paolo Petrone del rione di Ponte. Costui, essendo autore di una cronaca dei tempi suoi, narra, come esso ed il suo collega si portarono alla fortezza, vi si trattennero un mese e la fecero spianare fino al livello della piazza, lasciando il posto abbandonato e senza guardia. Il Vitelleschi ebbe nel 1440 la pena degna delle atrocità, che commise per suo male animo. Papa Eugenio IV, che lo avea innalzato alla porpora, e gli avea dato l’arcivescovato di Firenze, venuto in gravi sospetti contro di lui lo fece improvvisamente arrestare e condurre in Castel s. Angelo, dove finì di vivere il dì 2 di aprile, compiendo il triennio dello scempio da lui fatto di Palestrina.

Morto questo, cominciò ad annidarsi qualcuna delle famiglie profughe nei dintorni del demolito palazzo baronale: è probabile che questo nucleo di popolazione si andasse successivamente aumentando, finchè nel 1447 da Niccolò V. fu dato pieno permesso ai Colonnesi di riedificare Palestrina, ma senza fortificazioni: prescrizione che sembra essere stata rimossa quasi contemporaneamente poichè nel 1448 Stefano Colonna che si pose a riedificare la città la munì di un muro merlato, di alcune torri, e vi aprì tre porte, dette di s. Cesario, del Murozzo, e del Truglio. Petrini Mem. pag. 180.181. Dopo questa epoca Palestrina cominciò a prosperare ed estendersi in modo da occupare tutti i ripiani dell’antico tempio della Fortuna. Nel 1527 andò soggetta alle devastazioni delle truppe di Carlo V. e poco dopo alla pestilenza. Nella guerra dei Caraffeschi fu occupata l’anno 1556 dagli Imperiali venuti in soccorso di Marcantonio Colonna contro Papa Paolo IV. e finalmente nel 1630 da Francesco Colonna fu venduta ai 16 di gennaio a Carlo Barberini fratello di Urbano VIII. per 775.000 scudi insieme con la tenuta di Mezza Selva e di Corcollo, e dopo quella epoca si ritiene da questa stessa famiglia con titolo di principato.

La città attuale è interamente fondata sulle rovine del magnifico tempio della Fortuna; dell’antica così parla Strabone lib. V. c. III. S. II. “Alla vista di quei di Roma sono Tibur, Preneste, e Tusculo: Tibur è quella, in che è l’Eraclèo, e la cataratta…. Preneste poi è quella dove è il tempio celebre della Fortuna, che dà oracoli; e da ambedue queste città sono addossate alla stessa falda di monti: sono fra loro distanti circa 100 stadii (12 miglia e mezzo): e da Roma Preneste lo è il doppio, Tibur meno. Dicono essere ambedue di origine greca, e che Preneste in principio si appellasse Polistefano (di molti recinti). Ora, ambedue sono forti, ma molto più forte è Preneste; imperciocchè ha per rocca sopra la città un monte alto il quale è unito alle montagne contigue con un collo, e domina ancor questo, salendovi direttamente, due stadii (1250 piedi). Oltre l’esser forte si aggiunge che è da ogni parte forata da canali coperti, che vanno fino alla pianura, altri per condurre l’acqua, altri per sortite nascoste: ed in uno di questi Mario assediato lasciò la vita. Per le altre città l’essere ben munite si pone a bene: ai Prenestini però, per le sedizioni dei Romani fu una calamità; imperciocchè rifuggiandosi ivi coloro, che tentano cose nuove, dopo essere presi, avviene che ai guasti che soffre la città si aggiunga ancora lo smembramento del territorio, cadendo la pena sopra quelli che non ne hanno colpa. Scorre pel territorio di essa il fiume Veresi. Le suddette città stanno ad oriente di Roma”. E’ questa descrizione così esatta, che non può negarsi avere il geografo visitato i luoghi egli stesso. Il nome di Polistefano, che egli ricorda, piuttosto che significare materialmente di molte corone di fiori, significa di molte cinte, o corone di mura, che tale infatti è il caso di Preneste, nella stessa guisa che Orfeo Argonaut. v. 895 dice che il vello di oro custodivasi entro un luogo circondato con sette corone di torri e ben polite pietre:

….

Essendo pertanto la città attuale fondata sulle rovine del tempio, la sua pianta si accosta molto al rettangolo, e si innalza su vari ripiani in modo piramidale, come un dì innalzavasi il tempio. I principali di questi ripiani si distinguono ancora, e sono quello del giardino di sotto dei Barberini, quello del giardino di sopra e della via del Corso, quello della via del Borgo, quello di strada Nuova, e quello della Cortina.

La città moderna non presenta alcun edificio degno di esser particolarmente ricordato, e la Cattedrale stessa è una chiesa ordinaria: le case della parte inferiore sono sufficientemente ben fabbricate; il giardino Barberini però in essa compresa è ridotto ad un orto, che non ricorda la primitiva magnificenza, se non per le statue mutile e tronche qua e là abbandonate, per un bassorilievo bacchico, e per vari piedestalli con antiche iscrizioni di cui le più importanti sono quelle di Cneo Voesio Apro pubblicata dal Petrini p. 313, di Decimo Velio Trofimo riportata dallo stesso p. 318, di Manilia Lucilla id. p. 364, e quella votiva della Pietà e della Fortuna id. p. 299. Le cose della parte superiore sono piuttosto tugurii: ed il palazzo baronale stesso che è in questa parte, ed è fabbricato sulle rovine dell’emiciclo nel ripiano della Cortina, sebbene sia di architettura corretta del declinare del secolo XV è in rovina.

Contiene però oltre il celebre mosaico, di che si farà menzione più sotto, molti frammenti antichi di scultura, e varie iscrizioni, fra le quali la famosa della Fortuna, che incomincia TV QVAE TARPEIO COLERIS VICINA TONANTI, una alla Pace Augusta: l’altra alla Sicurezza Augusta eretta dai decurioni e dal popolo prenestino. Vaga è la chiesa baronale di s. Rosalia tutta incrostata di alabastro e marmi fini, nella quale si mostra un gruppo della Pietà ricavato nel masso vivo della rupe, ma non finito, che dicesi di Michelangelo, ma che piuttosto risente lo stile di Bernini. Più squallido ancora è l’aspetto della contrada denominata lo Scacciato, dove sembra essersi rannodata la popolazione dopo la catastrofe sofferta per opera del feroce Vitelleschi.

Nelle rovine del tempio, delle mura, e di altre fabbriche antiche primeggiano principalmente la costruzione a poligoni grandi ben politi, e della terza specie, e quella a poligoni piccoli; non mancano parti costrutte di opera quadrata, e di opera laterizia, così che quattro distinte epoche si ravvisano, quella di Preneste indipendente da Roma nella prima, quella di Silla nella seconda, quella delle guerre puniche nella terza, e quella degli imperatori nella ultima. Verso mezzodì alle due estremità della città sono le porte denominate di s. Martino e del Sole: verso oriente sono la porta delle Monache, la porta Portella e la porta dei Cappuccini: verso settentrione finalmente è la porta s. Francesco, in tutto sei, oltre due porte antiche chiuse, una nel recinto di pietre quadrilatere presso la porta s. Martino, l’altra nel recinto a poliedri presso la porta Portella e che ha 9 palmi di larghezza. Il recinto antico originale cominciava alla porta del Sole, dove se ne veggono i primi avanzi a poligoni, di là dirigevasi direttamente alla sommità della cittadella, oggi detta Monte s. Pietro, ed in questo tratto si veggono alcune torri quadrilatere costrutte di opera incerta fra la porta delle Monache, e la porta Portella. Ivi pure il muro a poliedri conserva 15 piedi di altezza, e sopra un masso in lettere di forma antichissima leggesi PED XXX. Dopo aver coronato la sommità del monte riscendeva di nuovo fin presso la porta s. Martino dove fu rafforzato circa la epoca di Annibale con mura di pietre quadrilatere, e dove vedesi una delle porte antiche chiuse, indicate di sopra, e della via di s. Girolamo a raggiungere la porta del Sole. Questo ambito di circa tre miglia veniva intersecato almeno da tre altre cinte al di sopra della contrada della Cortina, e perciò la città potè dirsi polistefano, o di molte corone, formando come quattro città diverse. oltre i vari ripiani del tempio, che potevano anche essi riguardarsi come altrettante cinte.

Del tempio stesso io pubblicai una memoria, l’anno 1825, allorchè illustrai il restauro fatto di esso da un architetto russo, intitolata Il Tempio della Fortuna Prenestina ec; siccome questa memoria fu pubblicata a spese di Alessandro I. imperatore delle Russie e si distingue per la splendidezza della edizione, e per la grandezza delle tavole, ma è dall’altro canto difficile ad aversi, perchè la edizione venne esaurita, perciò credo opportuno di riepilogarla in questa opera, onde possa aversi una giusta idea della forma e delle parti di quella fabbrica portentosa, che attrasse gli studii degli architetti e degli antiquarii di tutti i tempi, che ne foggiarono ristauri fin dal secolo XV: ed uno se ne conserva nella Biblioteca vaticana n. 3439: più noti sono quelli di Pirro Ligorio, Pietro da Cortona, e Costantino Thon, architetto russo, e quest’ultimo è quello che io illustrai colla memoria sovraindicata. La fondazione primitiva di questo tempio è ignota, ma certamente è antichissima, come lo dimostrano le imponenti sue sostruzioni a poliedri, ed il passo di Cicerone De Divin. lib. II. c. XLI. dove narra, come Numerio Suffucio personaggio onesto e nobile di Preneste, ammonito ripetutamente da sogni, in ultimo luogo ancor minaccevoli, andò a tagliare una selce, dalla quale spiccarono fuori incise in legno di quercia le famose sorti prenestine, scritte in lettere antiche. E questo luogo ai suoi tempi vedevasi chiuso e religiosamente custodito pel gruppo della Fortuna assisa, allattante Giove e Giunone. E nello stesso tempo scorse miele da un olivo piantato nel luogo dove ai suoi dì vedevasi il tempio della Fortuna: ubi Fortunae nunc sita est aedes; del quale olivo per ingiunzione degli aruspici, che predissero la futura celebrità di quelle sorti, fu fatta la cassetta, nella quale vennero deposte le sorti stesse, che si tiravano per ordine della Fortuna: quae hodie Fortunae monitu tolluntur. E soggiunge che la bellezza e la vetustà del Tempio, avea fatto ritenere fin allora presso il volgo il nome di sorti prenestine. Era questo oracolo in tale celebrità sul finire della prima guerra punica, che il console Lutazio, che poi la finì presso le isole Egadi, ebbe divieto dal senato di consultarlo, perchè con savio divisamento giudicava doversi amministrar la repubblica con auspicii romani e patrii non con estranei: auspiciis enim patriis non alienigenis rempublicam administrare oportere. Valerio Massimo lib. I. c. IV. E tale fu la fama, tanta la venerazione, che riscuoteva il tempio della Fortuna, che Ovidio Fast. VI. v. 61 e seg. designa Preneste col nome di mura sacre della dea prenestina, e Lucano Phars. II. v. 193 e seg. chiama i Prenestini, coloni della Fortuna:

Vidit Fortuna colonos

Praenestina suos ec.

Il tempio primitivo copriva la parte inferiore della città compresa entro le strade odierne del Corso e del Borgo, e la città primitiva lo circondava, e particolarmente innalzavasi verso la rocca; ma dopo che Silla distrusse la città, siccome fu notato di sopra, ampliò grandemente sulle rovine di essa il tempio, di sotto portandolo fino alla odierna contrada degli Arconi, e di sopra elevandolo fino alla contrada dello Scacciato dietro il palazzo baronale, e questa grande ampliazione indusse alcuni a credere il tempio della Fortuna, come edificato primitivamente da Silla. Da quella epoca la fama di questo tempio andò sempre crescendo, e viemmaggiormente salirono in credito le sorti prenestine, chè essendo Preneste divenuta colonia romana non solo cessò ogni gelosia per parte del senato di lasciar consultare il suo oracolo dai magistrati, ma sovente, dopo la caduta della repubblica, gli imperatori stessi lo favorirono. Svetonio in Domitiano c. XV. Lampridio in Alexandro Severo c. IV. La legge però di Costanzo emanata l’anno 353 della era volgare contro il culto antico, e soprattutto quella di Valentiniano II. e Teodosio promulgata nel 391 posero termine alla celebrità di questo antico delubro del Lazio, e col farlo chiudere, e lasciarlo in abbandono ne prepararono la rovina. Le successive scorrerie dei barbari mossero gli abitanti a riparare fra le sue rovine: i portici, ed i delubri furono ridotti ab abituri moderni, ed a poco a poco questa mole immensa scomparve. Rimaneva però ancora intatta una gran parte delle sue magnifiche sostruzioni, le antiche scale marmoree servivano ancora per le communicazioni degli abitanti, e conservavano la loro magnificenza, e vedevasi ancora torreggiare sulla sommità dei ripiani il tempio rotondo della dea, allorchè nel 1298, come già si notò di sopra, per ordine di Bonifacio VIII. furono smantellate le sostruzioni, distrutte le scale, atterrato il portico semicircolare, e demolito il tempio rotondo. E quello che per la solidità resistette al piccone ed al fuoco di Bonifacio fu deformato dagli abituri della popolazione e dalla successiva distruzione del del 1437 fatta per opera del Vitelleschi. La riedificazione ulteriore della città sugli avanzi del tempio apportò nuovi guasti, e prova di fatto è lo stato in che vedesi ridotta una delle magnifiche sale chiusa oggi nel seminario vescovile, e della quale si avrà da ragionare più sotto.

L’altezza verticale del tempio dal piano della via antica, che lambisce la gran conserva occidentale fino alla sommità del tolo del tempio rotondo è di 450 piedi antichi, pari a palmi romani moderni 600, e di quest’altezza totale sono ancora in piedi i ruderi per 510 palmi, ossia piedi 382 e mezzo, cioè non mancano che soli piedi 67 e mezzo per la totalità. Di fronte poi ha nella base piedi 1275 di larghezza, pari a palmi 1700: questa larghezza si restringe a palmi 500 alla base del corpo superiore, ed a 120 nell’area del tempio propriamente detto. L’edificio era rivolto a mezzodì come altri fra i templi più antichi del Lazio, e particolarmente quelli ancora esistenti di Diana Aricina e di Giunone Gabina, e quelli distrutti di Giunone Lanuvina e di Giove Capitolino.

Essendo il tempio addossato alla falda del monte venne innalzato sopra varii ripiani a guisa di scaglioni, o terrazzi: questi ripiani sono, come è naturale paralleli fra loro, prova che tutti furono eretti per uno scopo medesimo; ma la loro costruzione è diversa in tal modo che d’uopo è riconoscere quattro epoche diverse: imperciocchè vi si trova la costruzione a poliedri, che è quella del tempio primitivo, quella a parallelepipedi pertinenti alla epoca della guerra annibalica, quella a piccioli poliedri, o ciottoli, spettante ai tempi di Silla, e quella laterizia della prima era imperiale. Ho notato di sopra, che cinque sono i terrazzi o ripiani principali: quello del giardino Barberini che io appello delle Piscine: quello del Corso che io chiamo delle Aule: quello del Borgo che può designarsi col nome di medio: e quello della Cortina, ossia dell’Emiciclo. Precedeva dinanzi la base di questa mole un’area grande circoscritta da termini, onde dividere la parte sacra dalla commune, o pubblica, a destra della contrada degli Arconi: di questi termini, o cippi, simili a quelli del pomerio di Roma, due ne furono scoperti nel risarcire la strada l’anno 1824. E quest’area era circoscritta nei lati da due amplissime cisterne, delle quali quella verso occidente rimane intatta: quella verso levante è sotterrata. In fondo all’area fra i due avancorpi delle conserve, erano 29 fornici, dei quali i cinque centrali fomavano una specie di avancorpo, ed i 12 per parte andavano a riunirsi alle conserve: e di questi uno a sinistra, ed i dodici a destra rimangono intieri, e per la loro costruzione si riconoscono come una giunta fatta da Silla, onde protrarre il piede del tempio verso la pianura e profittare dei fornici per abitazione dei ministri inferiori inservienti al tempio. Le due conserve, che fiancheggiavano l’area furono posteriormente aggiunte, come si riconosce per la costruzione laterizia: esse furono edificate per raccogliere lo scolo delle fontane e delle piscine superiori, e formare un deposito di acque in servizio della città sottoposta. La conserva occidentale, che, come si disse è intera, per la vastità, per la bellezza della opera laterizia, e per la conservazione è uno degli esempi più rimarchevoli, che rimangono di tali opere. Il ricettacolo, compresa la grossezza dei muri è un corpo quadrilungo cha ha 320 piedi di fronte e 100 nei lati: internamente è suddiviso in 10 aule, o corridoi, ciascuno dei quali communica coll’altro per tre vani, ed era illuminato da due spiragli, oggi ostrutti, meno uno esistente nel quarto corridore, il quale è aperto, e conserva nell’esterno il pluteo circolare di travertino a guisa di bocca di pozzo, il quale mostra come fossero tutti gli altri. Questi corridori sono rivestiti di finissimo astraco a stagno, ed hanno ciascuno circa 80 piedi, o palmi 107 di lunghezza, e 24 piedi e 32 palmi di larghezza. Solo tre corridori rimangono praticabili, poichè gli altri sono pieni di acqua pluviale, e di quella che vi filtra da una moderna fontana sovrapposta. Esternamente il lato occidentale di questa conserva è ornato di sette nicchie: di queste la quinta per chi giunge da Roma è più ampia e rettilinea, mentre tutte le altre sono curvilinee: nel lato meridionale se ne contano 24, delle quali la duodecima è pur rettilinea, e più ampia. Questa anomalia nel sistema generale di tali nicchie mi porta a credere, che queste nicchie rettilinee servissero d’incassatura per contenere la iscrizione di chi edificò la conserva, e su tal proposito giova di ricordare, che nella vigna Petruccini circa la metà del secolo passato fu trovato un marmo alto piedi 3, largo 9, colla iscrizione seguente frammentata, che, se non voglia credersi quella posta in questi rincassi, almeno è analoga ad essa: e questa lapide dicea:

….I . F . DIVI . IVLII . N . AVGVST …..

….IG . III . IMP . VIII . TRIB . POTEST . XVII ….

la quale io credo, possa supplirsi nel modo seguente:

TI.CAES.DIVI.AVGVSTI.F.DIVI.IVLII.N.AVGVSTVS

COS.II. DESIG. III. IMP. VIII. TRIB. POTEST. XVIII.

Questa lapide corrisponde all’anno 18 della era volgare in che Tiberio si designò console per la terza volta, e la costruzione laterizia di questa conserva essendo analoga a quella dei Castra Praetoria, si trova affatto di accordo con questa epoca. Il lato orientale non ha nicchie, ma circa la estremità, una porticina, che mette in una scala rivestita anche essa di astraco, per la quale discendesi al fondo della conserva. Il muro presso questa porticina è ancor meglio costrutto del rimanente, che pure è bellissimo, ed offre una precisione di struttura, superiore ad ogni altra parte del tempio: esso è ornato di due mezze colonne, laterizie anche esse, e di ordine dorico.

Per le scalèe di Silla ascendevasi dall’area fra le due conserve al primo ripiano detto delle piscine, perchè aprivansi sopra di esso due vasti recipienti di acqua, rettangolari, lunghi ciascuno 250 piedi, larghi 90, i quali servivano per le sacre abluzioni. E questo ripiano avea 1275 piedi di lunghezza e 260 di larghezza: era lastricato di grandi poligoni di calcaria, siccome ricavasi da due tratti considerabili, che ne rimangono, uno sotto la casa Tommasi, l’altro sotto la casa Petrini. Delle piscine poi, visibile ancora, sebbene riempiuta dalle macerie, è quella verso occidente nel giardino Barberini: di quella verso oriente si trovano vestigia nella casa Fiumara: il pluteo, che le cingeva era rivestito di mosaico bianco.

Dal ripiano delle piscine ascendevasi per due scale a doppia rampa a quello delle aule: anche esso avea 1275 piedi di fronte; ma ne avea soli 82 e mezzo di fianco; e veniva pure coperto da massi poliedri di calcaria, dei quali una traccia ancora rimane, lungo la strada detta il Corso, ad occidente della cattedrale. In fondo a questo secondo terrazzo, ergevasi sopra molti gradini un edificio ben decorato e di stile purissimo, che da Silla venne addossato alla sostruzione primitiva del ripiano superiore. E questo corpo di fabbrica fu appellato dagli scrittori moderni il delubro inferiore, nome che non può dirsi improprio, ma che neppure è sicuro. Malgrado il guasto apportato dagli uomini a questa parte, ancora si conserva la traccia della sua forma e decorazione. L’edificio si componeva di due sale oblonghe, fra le quali aprivasi un’area: delle due sale quella verso occidente è presso che interamente scomparsa: quella verso oriente, ridotta all’uso vilissimo di cantina, cucina, e dispensa del Seminario, andò soggetta a gravissimi guasti; nulladimeno una parte della decorazione si è salvata, e questa serve a far riconoscere non solo lo stato suo primitivo, ma ancora quello dell’altro: essa compresi i muri ha 100 piedi di lunghezza, e 55 di larghezza: e la sua fronte ancora in parte conservasi sulla così detta piazza Tonda presso la cattedrale; essa era ornata di quattro mezze colonne di ordine corintio, i cui capitelli rimangono ancora sul posto, e sono di purissimo stile. Queste mezze colonne e gli archi erano costrutti di massi di tufa: i capitelli e le basi, come pure tutti gli ornati interni sono di calcaria: il rimanente è di ciottoli, o di opera incerta. Nell’interno erano sette riquadri per parte, determinati alternativamente da mezze colonne e pilastri, e questi riquadri probabilmente servirono a contenere statue: innanzi ad essi ricorse un magnifico podio, ornato a guisa di un fregio dorico di triglifi con patere e rosoni fra loro, di uno stile e di un taglio così puro, che pochi avanzi dell’antichità possono gareggiare con questo: è molto probabile che sopra questo podio fossero collocate piccole colonne, le quali determinavano le imposta della volta, ornata forse di cassettoni. In fondo aprivasi un nicchione rettilineo contenente tre nicchie per statue. Il pavimento di questo era di musaico figurato, ed è quello che ora conservasi nel palazzo Barberini, conosciuto sotto il nome di musaico di Palestrina, il quale da questo luogo fu trasportato dove oggi si vede l’anno 1640 per ordine del card. Francesco Barberini colla direzione dei migliori artefici, e dei più insigni eruditi del tempo, e specialmente di Pietro da Cortona. Lungo sarebbe qui volerlo descrivere, e d’altronde lo è stato da molti; ma non sarà fuor di luogo di ricordare le opinioni di quelli che ne hanno parlato, e nel tempo stesso azzardarne anche una, che sembri meno allontanarsi dal vero. Kircher che fu il primo che io conosca a trattarne di proposito vi credette espresse le vicissitudini della fortuna, il card. di Polignac il viaggio di Alessandro all’oracolo di Ammone, Volpi un fatto di Silla a noi incognito, Montfaucon il corso del Nilo, Du Bos una carta geografica dei paesi intorno a quel fiume, Winckelmann l’incontro di Elena con Menelao in Egitto, secondo la tragedia di Euripide, Chaupy l’imbarco dei grani dall’Egitto per Roma, Barthelemy il viaggio di Adriano ad Elefantine, l’avv. Luigi Cecconi gli eventi fortunati di Silla, ed infine Fea l’Egitto conquistato dall’imperatore Cesare Ottaviano Augusto sopra Cleopatra e Marco Antonio. E’ da osservarsi che non può cader dubbio sulla scena rappresentata in questo mosaico, perchè chiaramente vi si vede effigiato l’Egitto, poichè egizi sono gli edificii, le piante, e gli animali; non è neppure da dubitarsi delle circostanze, giacchè è cosa manifesta, che è nel momento della inondazione nilotica; i costumi della gente bassa e dei sacerdoti sono egizi, quelli al contrario dei principali personaggi e dei soldati, sono macedoni; e nell’insieme veggonsi tripudi, banchetti, caccie e sacrifici; dunque parmi doversi riconoscere in questo mosaico espresso gli usi che accompagnavano la inondazione del Nilo durante il regno dei Tolomei. Alcuni degli animali sono accompagnati dal loro nome scritto in greco, come il rinoceronte …., il porco scimmia …. , le enidri …. , i toanti ….. , lo xifi …. , la sfinge …. , il crocota …. , l’iabu …. , la giraffa …. , i ceiti …. , la leonessa …. , la lucertola cubitale …. la lince … l’orso …. e per errore dell’artista … , la tigre …., l’asino-centauressa …. , il coccodrillo terrestre …. … il coccodrillo pantera …. .

E questo mosaico sembra essere copia di un monumento più antico, poichè il lavoro, e la forma lunata delle lettere ne inducono a crederlo eseguito circa il tempo dei Flavi, e la cosa sarebbe dimostrata, se come si sostiene da Leonardo Cecconi nella storia di Palestrina vi era scritto PINI OPVS; imperciocchè Cornelio Pino pittore fu appunto impiegato da Vespasiano a dipingere il tempio dell’Onore e della Virtù, siccome narra Plinio lib. XXXV. c. X. Ciò che però non va soggetto a dubbio è che questo mosaico non può confondersi affatto coi lithostrota, o pavimenti lastricati di marmo, uno dei quali a scudetti o piccole lastre fu fatto da Silla nel tempio della Fortuna, secondo Plinio lib. XXXVI. c. XXV; poichè non può in modo alcuno applicarsi il parvulis crustis di quello scrittore ai tasselli del mosaico. Il resto dell’aula era lastricato di mosaico bianco, e ne rimangono ancora le vestigia. L’altra aula come di già venne indicato di sopra è presso che interamente scomparsa; e le poche vestigia, che ne rimangono non si oppongono a crederla della forma di questa, ma fosse però nel nicchione non vi erano le nicchie piccole per le statue. E’ pur probabile, che il pavimento fosse ornato con mosaici analoghi all’altra. Fra queste due sale, l’area rettangolare esistente avea 190 piedi di fronte e 70 di profondità: nei lati era circoscritta dai muri delle due sale: di fronte poi vi era una fila di colonne, delle quali tre, sebbene troncate sono ancora al posto loro, e visibili, inserite nel muro della cappella del cemeterio, che separa questa da quella del Sagramento nella cattedrale. Ed a queste colonne pure appartenevano alcuni capitelli, già abbandonati nei dintorni della cattedrale, ed oggi riposti nel palazzo municipale. In fondo a questa area ricorreva un corridore ornato nella faccia esterna di mezze colonne, fra le quali ricorrevano nove finestre con riquadri tra loro, ornate di modinature molto gentili: di queste finestre due rimangono ancora intere, e tre sono dimezzate, che si veggono nel cortile del Seminario. Il pavimento di questa area era di lastre quadrilatere di travertino circoscritte da una fascia di mosaico bianco. E prima che Silla edificasse questo corpo sorgeva in questa parte una spianata lunga 810 piedi e larga 90, sostenuta da muri costrutti di massi poliedri, dei quali una parte rimane ancora intatta nel rimessone Lulli.

A destra e sinistra di questa spianata aprivansi scale a due rampe, sostenute pure da mure di poliedri, e dietro a questa è il gran muro di sostruzione del ripiano medio, costrutto nella stessa maniera, ed il quale nel punto denominato la Rifolta conserva l’altezza sua originale. Il ripiano medio corrispondeva almeno in parte alla odierna contrada del Borgo: verso oriente era aderente al muro di recinto della città, dove rimane ancora la porta antica, oggi chiusa presso quella denominata Portella. Dietro questo ripiano una sostruzione pure a poliedri reggeva il ripiano superiore dove credo, che in origine fosse il tempio, prima che Silla lo portasse a una elevazione molto più considerabile sopra il palazzo baronale. Di questo ripiano, oltre il muro di sostruzione già indicato, rimane ancora in più luoghi il pavimento di poligoni di calcaria, sì nella via pubblica, che nella casa Tommasi. In mezzo alle due rampe che da questo ripiano conducevano a quello delle esedre, opera sillana come tutto il rimanente della parte superiore, sporgeva in fuori una edicola con recesso sotto, del quale è ancora in piedi l’arco interno.

Il ripiano delle esedre è sostenuto da un muro solido di opera incerta, alle cui estremità sono due grandi archi più vasti ancora di quello centrale, i quali erano ornati di statue, e di fontane, delle quali rimane ancora nell’orto Petrelli lo speco, che conduceva l’acqua a quella verso occidente. Il ripiano delle esedre, che sostiene quello della Cortina trae nome da due esedre, o diete semicircolari, magnifiche, che ne formavano la decorazione, delle quali quella verso oriente è ancora riconoscibile, e si chiama la grotta Petrelli, essendo proprietà di questa famiglia: essa è ornata nell’interno di quattro colonne di calcaria d’ordine corintio, e di cassettoni quadrati nel soffitto, che conservano ancora in cinque fori le tracce dei cassettoni di bronzo, che li adornavano. Queste esedre furono erette probabilmente, onde potessero servire di trattenimento e di riposo a quelli che venivano a consultare le sorti: ed è probabile che il recesso in mezzo, immediatamente posto nell’asse del tempio, sia quel luogo chiuso religiosamente, ricordato da Cicerone, dove eransi rinvenute da Numerio Suffucio le sorti prenestine, e dove ai suoi giorni vedevasi la Fortuna effigiata in atto di allattare Giove e Giunone, siccome fu notato di sopra; come pure è probabile che ivi si conservassero le sorti. Infatti che fosse un luogo più riguardato si riconosce dall’osservare che era preceduto da una specie di vestibolo e chiuso da porta. Fra questo recesso e le esedre, fra le esedre, e le estremità del tempio si riconosce una fila di camere separate una dall’altra, che esternamente offrivano l’aspetto di un bel portico, arcuato, ed internamente furono altrettante celle di abitazione per i sacri ministri, e gli interpreti delle sorti. Sull’estremità di questo ripiano erano le scale, che si dirigevano alla sommità di tutta la mole, cioè al tempio rotondo.

Dal ripiano delle esedre passavasi a quello del tempio propriamente detto: la sostruzione che lo reggeva avea ancora essa una fila di celle arcuate di fronte, pure per abitazione dei sacerdoti. Il ripiano racchiudeva un’area quadrilunga di 300 piedi di fronte e 150 di fianco, area che era destinata ai sacrifici, e che veniva fiancheggiata da un portico doppio di colonne di ordine corintio: di fronte era aperta onde poter godere la vista imponente delle campagne latine, e solo vi ricorreva un pluteo, o parapetto: in fondo poi fra due portici rettilinei che erano una continuazione di quelli di fianco, aprivasi in mezzo una magnifica gradinata semicircolare, per la quale salivasi ad un portico di colonne pur semicircolare, oggi ridotto a palazzo baronale. E sopra questo emiciclo entro un’area rettangolare larga 75 piedi, lunga 90 sorgeva a guisa di corona il tempio rotondo, che era l’Aedes Fortunae, dove secondo Cicerone nel luogo notato avea esistito l’olivo, dal quale era scorso miele, e di che erasi fatta l’area che conteneva le sorti prenestine. Una iscrizione frammentata, che ancora si legge al suo posto nel fregio dei due recessi arcuati sottoposti all’emiciclo mostra, che un tempo, questa parte fu fatta, e le statue che conteneva furono ristaurate dai Decurioni e dal Popolo Prenestino: DEC . POPvlvsque . praenesTINvs . FAcivndvm COER . ET . SIGNA RESTIT. Del portico dell’emiciclo non rimangono tracce: di quelli dell’area sotto di esso una base si vede nel pianterreno della casa del sagrestano di s. Rosalia, e due colonne e mezza nelle carceri pubbliche. Dell’emiciclo non si conserva che la forma. E del tempio rotondo non rimane più alcuna traccia essendo stato, come si vide, interamente distrutto da papa Bonifacio VIII. nel 1298.

Oltre gli avanzi del tempio entro il recinto antico della città, ed immediatamente presso di esso trovansi rovine importanti. E primieramente uscendo dalla porta s. Francesco incontrasi a sinistra uno speco che ha un piede e mezzo di capacità, del quale conservasi soltanto il masso. Di là scendendo e costeggiando il recinto del chiostro dei pp. riformati si veggono le mura di massi poliedri dell’antica città, ed un mezzo miglio dopo sull’altura sono i ruderi di una conserva. Seguendo lo stesso viottolo vedesi a destra un’altra vasta conserva lunga piedi 240 larga 204, di forma quadrilatera, parte rivestita di ciottoli, parte di reticolato, con legamenti, e tutta intonacata di astraco, o opus signinum. Evidentemente mostra essere stata divisa internamente in varie sezioni determinate da pilastri: i muri, che la circoscrivono conservano nel lato interno le tracce di 12 pilastri nei lati lunghi, 10 nei lati minori, onde può credersi che nove sezioni erano quelle da nord a sud ed 11 da oriente ad occidente. Di queste, tracce visibili sono i 10 pilastri attaccatti al lato settentrionale 9 di quelli addossati all’orientale, e 7 di quelli addossati all’occidentale: di quelli del meridionale non rimane traccia veruna. Questa conserva trovasi in una situazione più alta di quella prossima ad essa verso oriente, la quale è con maggior regolarità costrutta di scaglie ed intonacata di astraco, e cogli angoli interni smussati, con scala per scendervi larga piedi 115, lunga 150 con nove pilastri nel lato maggiore, ed otto nel minore.

Dentro la città stessa nell’orto Scavalli sotto la chiesa di s. Antonio è una schola di opera incerta, aderente alla quale verso oriente è una parete di opera mista con tre nicchie, due rettilinee ed una curvilinea che forse è un avanzo di cella di un tempio del secondo secolo della era volgare, separato affatto e fuori del recinto del tempio grande.

La cittadella antica, oggi Monte s. Pietro è alla latitudine di 41° 50′ 44″ ed alla longitudine di 30° 33′ 4″, 5: essa è alta sul livello del mare piedi parig. 2145, 4. e non conserva di antico altro che una parte delle mura a poliedri, ed un piedestallo nella chiesa di s. Pietro, che serve oggi di vaso per l’acqua santa, sul quale leggesi una iscrizione a Publio Elio Tirone figlio di Publio, della tribù palatina, salio dell’arce albana, a cui l’imperatore Commodo nella età giovanile di soli anni 14 accordò il commando dei cavalieri Brauconi (di Brummt presso Strasbourg), ed a cui avendo i decurioni decretata una statua, il padre P. Elio Blando ne assunse le spese. La chiesa stessa sebbene di vecchia data, poichè ne fa menzione s. Gregorio dei Dialoghi, è tutta moderna essendo stata riedificata nel secolo XVII. e restaurata nel pontificato di Clemente XII. In essa è un buon quadro di Pietro da Cortona rappresentante Gesù Cristo, che dà a pascere il suo gregge a s. Pietro: ed una statua dello stesso santo titolare di stile berninesco. Come luogo fortificato la cittadella è un posto assai vantaggioso, poichè domina tutte le terre dintorno, e perciò Pirro, secondo Floro vi salì nel venir contro Roma: a destra in fondo si vede Roma: si riconoscono Collazia, Gabii, Scaptia, e Querquetula: dirimpetto si schierano Tusculo, e Monte Porzio, Monte Compatri, Labico o la Colonna, Corbio o Rocca Priora, la selva algidense, l’arce Carventana, e Velitre; a sinistra Artena o Monte Fortino, Valmontone, Signia o Segni, Anagni, Paliano, Genazzano e Cave; di dietro poi Rocca di Cave, Capranica, Poli, e Tivoli. E questo sito fu scelto dai Colonnesi come centro del loro dominio nei tempi bassi: ancora conservasi la loro fortezza, sebbene diroccata, costrutta di opera saracinesca: e sulla porta è il loro stemma fra le iniziali S C, cioè Stephanus Columna, il quale riedificò la città col monte e la rocca nel 1332 siccome si legge nella lapide sotto lo stemma sovraindicato in caratteri gotici:

MAGNIFICUS DNS STEFAN

DE COLUMNA REDIFICAVIT

CIVITATEM PENESTRE CU

MONTE ET ARCE . ANNO

1332

Nella contrada degli Arconi, a destra di chi va da Roma a Preneste è un orto detto di Porto, nel quale aderente quasi alla via è un bel castello antico di acqua con fontana di opera laterizia del I secolo dell’impero: questo per analogia di costruzione e per livello si riconosce essere stato fornito dalla gran conserva detta il Sotterraneo: dietro questa fontana è il recipiente diviso in due piani e rivestito di opera fina di astraco: ciascun piano si suddivide in tre camere. All’esterno per tre lati è semplicissimo ed altra interruzione non presenta che una risiega dove coincide la divisione dei due piani interni; nel quarto lato però cioè verso oriente era il prospetto della fontana, il quale veniva ornato con tre nicchioni rettilinei, e sotto ciascun di questi rimane lo speco, donde sgorgava l’acqua. Nel nicchione di mezzo sono lateralmente due nicchiette per statue, sebbene danneggiate e rotte esistono ancora entro l’orto, e sono di buono stile: una rappresentava un Fauno, e di questa non rimane che una parte del torso, l’altra una Ninfa seminuda. Presso questo castello sono pezzi di corniciami bene eseguiti del tempo degli Antonini. L’emissario poi di questo castello si ravvisa scendendo nel piano inferiore del recipiente, poichè esternamente rimane sottoterra. Questo castello, come tutti gli altri ruderi da questa parte appartengono alla seconda Preneste, ossia alla colonia sillana, la quale estendevasi fino alla contrada delle Quadrelle 1 miglio e mezzo sotto le prime sostruzioni del tempio, dove furono rinvenuti nel 1773 per opera del card. Stoppani i frammenti dei Fasti di Verrio Flacco ricordati da Svetonio, illustrati con dotta opera dal Foggini, e da me per ordine del card. Vidoni, che ne era il proprietario, dati alla luce restaurati l’anno 1825.

Oltre gli avanzi del castello, entro i limiti della seconda Preneste, 1 miglio circa distante da Palestrina sono le grandi rovine della villa imperiale edificata da Adriano circa l’anno 134 della era volgare come si ricava dai marchi dei mattoni che portano il terzo consolato di Serviano, dove stando a villeggiare Marco Aurelio vi perdè il figlio Vero Cesare in età di sette anni. Questi avanzi danno nome ad una chiesa rurale detta s. Maria della Villa e si estendono per circa tre quarti di miglio: sono di opera reticolata con legamenti laterizii, simile affatto a quella della villa Adriana. Rimangono in gran parte gli anditi del pianterreno, ma questi non sono tutti praticabili, in quelli però in che può penetrarsi si riconosce, che furono destinati a conserve, come si prova per gli angoli smussati, per le traccie ancora esistenti della opera signina di che erano rivestiti, e dei contrafforti arcuati di opera mista che all’esterno le consolidavano. Due fontane ancora possono tracciarsi, una di forma rotonda verso nord ovest, e l’altra col suo recipiente dietro, ad oriente della chiesa. Fra i ruderi di questa villa fu dissotterato il bello Antinoo di Braschi, nuova conferma della epoca adrianèa in che venne costrutta la villa.

Sulla strada vecchia da Palestrina a Cave un miglio distante dalla porta del Sole è il ponte detto dello Spedalato, di là dal quale entro la vigna adiacente è un edificio di forma ottangolare, rovinato, di costruzione del IV. o V. secolo della era volgare, con l’ingresso rivolto verso la via, e nicchie alternate rettilinee sotto e finestre sopra, corrispondenti a queste. Ora questa fabbrica ha molta analogia col preteso tempio della Tosse a Tivoli sì per la pianta, come pure per la costruzione materiale, e forse come quella fu una chiesa cristiana del IV. o V. secolo. Più comunemente lo credono il Serapèo edificato da Caio Valeriob Ermaisco secondo una iscrizione riportata dal Suarez nella sua Praeneste antiqua p.51: altri lo hanno supposto un tempio del Sole: altri la Schola Faustiniana; e questa ultima opinione è affatto contraria alla forma, ed alla struttura della fabbrica.

Il Foro della Preneste sillana si colloca comunemente a piè della conserva occidentale del tempio della Fortuna Prenestina fra la chiesa di s, Lucia, e quella della Madonna dell’Aquila per molti monumenti ivi trovati, e specialmente per le iscrizioni ad onore di Tiberio, di Giuliano, di Postumio, di Anicio Auchenio Basso, per due colonnette consacrate dai pretori Caio Magulnio Scato, e Caio Saufenio Flacco, e per le are della Pace e della Sicurezza ricordate di sopra; sembra però fare ostacolo a questa opinione il ritrovamento dei Fasti di Verrio Flacco fatto nella contrada delle Quadrelle molto di là distante, mentre Svetonio nella biografia di quel grammatico dice che ebbe una statua in Preneste in inferiore Fori parte contra hemicyclium: in quo fastos a se ordinatos, et marmoreo parieti incisos publicarat. Ma dall’altro canto le molteplici scoperte ricordate di sopra debbono preferirsi a quella di frammenti che poterono andar soggetti a traslocazione.

Presso Preneste furono ville sontuose degli antichi Romani; una ve ne ebbe Plinio il giovane da lui stesso ricordata lib. V. epist. VI. una ve ne ebbe pure il celebre Simmacob lib. III. epist. L. lib. VII. cp. XXXV. Sebbene si attribuisca a quest’ultima una lunga sostruzione a colle Martino, nulladimenob è finora incerto dove sì questa come l’altra fossero collocate.

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