Aricia – L’Ariccia

[t. 1, pp. 252-264]

Terra della Comarca, posta nel distretto e nella diocesi di Albano, distante da Roma 16 miglia, sulla strada postale di Napoli, che la traversa, e contenente 1264 abitanti. Gli astronomi Ricchebach e Conti ne han­no determinata la latitudine a 410 43′ 14” 1, e la longi­tudine a 30° 19′ 43″ 2.
Essa fa un tempo una delle città principali e più insigni della lega latina, ed una delle più antiche d’I­talia, poiché Solino c. XIII ne ascrive la fondazione ad Archiloco siculo, che è quanto dire più di 1360 anni avanti la era volgare: si pretende che Virgilio insinui Aen. lib. VII v. 761, che ne fosse fondatore Ippolito fi­glio di Teseo, quasi sessantranni dopo; ma a dire il ve­ro quel passo non è ben chiaro, poiché in esso altro non si dice, se non che Virbio figlio d’Ippolito ebbe per ma­dre Aricia. Quello però che è fuor di dubbio, è che il suo nome, di che ignorasi affatto la etimologia, si è con­servato da tempo immemorabile fino a’ nostri giorni, poiché non vi è stato aggiunto, che l’articolo, e la con­sonante C è stata, per la pronunzia, raddoppiata.
Il passo di Virgilio sovraindicato determina, che era di già una delle città più potenti del Lazio a’ tempi della venuta di Enea in Italia, e che prese parte nella guerra contro quel profugo. Ma dopo quella epoca altri fasti non presenta la sua storia antica prima del regno di Tarqui­nio il Superbo. Quel tiranno rafforzatosi colla parentela di Ottavio Mamilio tusculano, al quale die in moglie la figlia, tentò il colpo di prendere la direzione della lega latina, adunando la dieta nel luco di Ferentina. È noto da Tito Livio lib. I c. LI come parlasse il deputato ari­cino Turno Erdonio contra la insolenza del re di Ro­ma, e con quale tradimento infame questi ne traesse vendetta fino a farlo passare per reo di tentata strage del consesso, ed a farlo condamnare ad essere precipi­tato presso al capo dell’acqua ferentina, gittandogli ad­dosso un graticcio carico di sassi. Dopo la espulsione di Tarquinio da Roma, e la guerra intrapresa da Porsena per riporlo sul trono, questo re l’anno 249 di Roma, 505 avanti la era volgare, spedì il suo figlio Arunte, colla metà dell’esercito etrusco contra gli Ariciai, onde questi si formasse un regno per se. Ed egli strinse di assedio la città sperando di ridurla colla fame. Gli Aricini, vedendosi troppo inferiori di forze per resistere soli all’attacco, chiesero aiuto alle città loro amiche, e ne ottennero da Tusculo, da Anzio, e soprattutto da Cu­ma città della Campania retta allora da Aristodemo so­prannomato il Molle, che allestì una flotta ed approdò nel littorale di Ardea con 2000 soldati, dopo aver corso molto pericolo. Ivi lasciata una parte della gente a guar­dia delle navi, si mise in cammino sul far della sera alla volta di Aricia: giunto in vista degli assediati, po­se il campo in guisa che all’apparire del giorno questi potessero scorgere tale aiuto inaspettato. Gli Aricini fe­cero allora una sortita generale, e furono da Arunte re­spinti e fugati; ma Aristodemo co’ suoi Cumani prendendo alle spalle gli Etrusci, questi dopo aver lunga­mente resistito doverono cedere dopo che videro cade­re Arunte stesso trafitto da Aristodemo, e la loro rotta divenne completa. Que’ che scamparono colla fuga si ri­tirarono a Roma, dove furono accolti con tutti i tratti della ospitalità, che potevano sperare da una città ami­ca, ed ebbero per abitazione quello spazio fra il Campi­doglio, il Foro Romano, il Palatino ed il Circo Massi­mo, che da loro ebbe il nome di vico Tusco, che con­servò fino alla caduta dell’imperio.
Tale dimostrazione de’ Romani non poteva dimen­ticarsi dagli Aricini, e colsero bentosto la occasione di mostrare il loro risentimento, allorché si tenne la dieta nel bosco di Ferentina per ristabilire i Tarquini; in quella circostanza i ventiquattro communi, che entraro­no nella lega palliarono il vero motivo collo spedire am­basciadori a Roma a nome commune, dichiarando, essere il popolo romano accusato dai confederati di avere accor­dato il passo agli Etrusci contra gli Aricini, averli forniti di tutti gli oggetti necessarii per far loro la guerra, non potere ignorare, che in tal guisa gli Etrusci portavano la guerra a tutti i communi latini, e che se fossero pervenuti ad impadronirsi di Aricia avrebbero di mano in mano soggiogato le altre città: esiggere pertanto i confederati che il popolo romano desse piena soddisfazione agli Ari­cini assoggettandosi alla decisione della dieta, ovvero si preparassero a sostenere la guerra per parte della lega. Questi fatti si leggono in Livio lib. II ed in Dionisio I. V c.VI,e VII. Come era da prevedersi i Romani scelsero l’ul­timo partito: la guerra per la battaglia del lago Regillo fu fatale alla lega: i Tarquini rimasero per sempre esuli da Roma, il governo repubblicano fu consolidato, ed i confe­derati furono trattati dal popolo romano con quella mode­razione che meritavano popoli della stessa origine. Passato quel frangente gli Aricini per quasi due secoli rimasero fedeli alla lega romana, e non presero alcuna parte nel movimento fatto dagli Aurunci a favore de’ Volsci l’an­no 261 di Roma, quando secondo Livio lib. II c. XXVI e Dionisio lib. VI c. XXXII questi giunsero fin presso ad Aricia. Una prova anche più forte della loro deferen­za verso i Romani è quella che dierono l’anno 311 allor­ché scelsero di commune consenso cogli Ardeati il popolo romano, come arbitro sul possesso di un tenimento che era stato causa di continue discordie ed recisioni fra loro­: è nota la trista decisione che ne venne, più turpe ed acer­ba sembrata al senato romano stesso che agli Aricini ed agli Ardeati: idque non Aricinis, Ardeatibusque, quam patribus romanis foedius, atque acerbius visum dice Livio lib. III c. ult. veggasi l’art. ARDEA.
Dopo quella epoca fino all’anno 417 di Roma non ri­mangono memorie della storia aricina; in quell’anno pe­rò entrarono cogli altri communi più potenti del Lazio nella celebre lega tendente a scuotere affatto il giogo di Roma, e che finì colle battaglie del Vesuvio, e dello Astura: gli Aricini, che si mostrarono più accaniti degli altri, e che furono degli ultimi a sottomettersi vennero trattati colla stessa moderazione de’ Lanuvini, de’ Nomentani e de’ Pedani: cioè ebbero la cittadinanza di Roma, conservarono la sopraintendenza e direzione del tempio e delle ceremonie di Diana Aricina, che però furono fatte com­muni ai Romani. Livio lib. VIII cap. XIV. Questa decisio­ne fu emanata l’anno 420 di Roma. Nell’anno 441 secon­do Frontino, 445 secondo Livio, Appio Claudio il censore costruì la via che ebbe il suo nome, e questa traversò l’Aricia che era la prima stazione per chi da Roma andava all’emporio di Brindisi:
Egressum magna me excepit Aricia Roma
Hospitio modico.

attesta Orazio nella satira quinta del libro I e lo confer­mano gl’Itinerarii, quindi è da credersi che molto in opu­lenza crescesse per tal motivo. Ma niuna notizia più ci si affaccia di questo municipio fino all’anno 969 di Roma 85 avanti la era volgare, allorché avendo abbracciato il partito di Silla, andò insieme con Anzio e Lavinio, o secondo altri testi Lanuvio, soggetta alle devastazioni di Mario il giovane. Veggasi la epitome di Livio lib. LXXX. Rimasto però superiore Silla la fortificò di nuovo per testimonian­za dell’autore del trattato de’ Coloniis attribuito a Fron­tino, esonerandola dalla tassa dell’alloggio militare, ed as­segnando il territorio ai suoi soldati, che andarono a ri­popolarla colla colonia.
È probabile che Augusto, il quale era figlio di Azia aricina molto favorisse questa città, ed è certo, che a riguardo suo Cicerone nella terza Filippica c. VI. ribattendo l’accusa di. Antonio che tacciava Ottavio di nascita oscura, e che avea avuto per madre un’aricina, risponde: Aricina mater! Trallianam, aut Ephesiam potes dicere. Videte, quam despiciamur omnes, qui sumus e municipiis, id est omnes plane. Quotus enim quisque non est ? Quod autem municipium non conte­mnit is, qui aricinum tantopere despicit, vetustate an­tiquissimum, iure foederatum, propinquitate pene fini­timum, splendore municipum honestissimum? Hinc Vo­coniae, hinc Scaliniae leges; hinc multae sellae curu­les et patrum memoria et nostra; hinc equites romani, lautissimi plurimi et honestissimi. Sed si aricinam u­xorem non probas cur probas tusculanam? etc. E que­sto passo ho voluto intiero inserire onde mostrare quanto illustre fosse sul finire della republica questo mu­nicipio. E da questo apparisce, che Scatinio pretore l’anno 526 di Roma era aricino, e promulgò la legge de Stupro ingenuis illato, alla quale si allude da Quin­tiliano Inst. Orat. lib. IV. c. II, e da Suida nella voce […]: veggansi Christio, nella dissertazione sopra questa legge, ed Hoffnaun ad leg. Jul. de Adult. l. I. c. XXVI: Apparisce pure elio era aricino Voconio, tribuno della plebe, che nel 585 promulgò la legge tribunizia Voconia Ne qui census esset, virginern, mulie­remve haeredem faceret, legge ricordata da Cicerone nella prima Verrina c. XLI. nel secondo de Finib. ed illustrata da Pezron Diss. Triad. II. e da Wieling Lect. Jur. lib. II. c. XIX. seg.
Lo splendore e la opulenza di questo municipio durò fino alle prime scorrerie de’ barbari; impercioc­ché, considerando la vicinanza della metropoli, la prossimità della villa albana de’cesari, la immediata sua posizione sopra la via più frequentata, che partiva da Ro­ma, come era l’Appia, era un continuo andirivieni. Ma queste circostanze medesime, che ne’ tempi floridi di Roma aveano influito al ben essere del municipio ari­cino, furono nella desolazione della metropoli le cau­se della sua sciagura. Infatti, allorché Alarico nell’an­no 409 della era volgare prese e saccheggiò Roma, commettendo per tre giorni continui ogni sorta di vio­lenze, siccome leggesi in Filostorgio, Orosio, e Proco­pio, dopo quelle stragi si mise a scorrere la Italia meridionale, passando appunto per la via appia, quin­di Aricia che fu la prima stazione fu pure la pri­ma preda che si presentò dinanzi a’ suoi occhi. Il suo esempio fu seguito dai Vandali condotti da Gen­serico nel 455, i quali impadronitisi di Roma estesero le loro devastazioni dintorno dove poterono, mettendo tutto a ferro ed a fuoco. Queste medesime sciagure eb­be a soffrire nella malaugurata guerra fra i Goti ed i Greci. La città si andò così estenuando a poco a poco, e per maggior sicurezza il popolo si andò restringen­do nell’acropoli primitiva, abbandonando insensibilmen­te la città inferiore che era esposta a tali rovine.
Ne’ secoli susseguenti fino all’anno 846 la storia dell’Ariccia è incognita: in quell’ anno però per testimonianza di Giovanni Diacono, e di Leone Ostiense i Saraceni, che si erano annidati nella Sicilia e nella Ca­labria scorsero tutte le terre intorno a Roma, saccheg­giarono le chiese degli apostoli Pietro e Paolo, e par­titi da Roma per la via appia giunsero a Fondi, com­mettendo crudeltà inaudite. Credo che questa ultima sciagura finisse di spopolare l’Ariccia inferiore, e de­finitivamente restringesse gli abitanti nella cittadella, dove pur oggi è ridotta, e dove in origine venne fon­data dai Siculi. Imperciocché, come esistente ancora sulla via appia si nomina dall’anonimo di Ravenna nel secolo VIII. con evidente errore del trascrittore, che pone Aratie in luogo di Ariciae, o Aritiae. E questa città così ridotta nel secolo susseguente viene indicata col nome di castello l’anno 978 in una carta dell’ar­chivio di s. Maria in Via Lata che copiata dal Gallet­ti esiste nel codice vaticano 8048: in quella carta si legge come Giovanni de Aurimo e Marozia sua moglie abitanti del CASTELLO ARICIENSE comprarono due vigne poste nel TERRITORIO ARICIENSE. In un’altra carta dello stesso archivio si torna a ram­mentare il territorio ariciense l’anno 979, nel quale è nominata la contrada Cornaleto ed il fondo Corneto, che si torna a ricordare in un’altra carta del 998. Da un’ altra pergamena dello stesso archivio si rileva che nell’anno 981 l’Ariccia a somiglianza di altre città del­lo stesso tempo avea il suo dux che era uno Stefano, e che. s’intitola dux del castello ariciense. Altre carte dello stesso secolo esistenti nel medesimo archivio nominano nel 985 una contrada di Monte Publico, nel territorio ariciense, nel 987 un Leone arciprete della chiesa di s. Maria, quae ponitur intra Ariciense ca­stello, nel 988 la Valle de Aricia in loco qui voca­tur Molino, nel 990 di nuovo il castello Ariciense come abitato, e case presso di esso, ed allora secondo u­na carta riportata dal Lucidi nella Storia dell’Ariccia era Dux Ariciensis un nipote di Giovanni XIV. o XV. papa, il quale era figlio di Alberico III. conte tusculano, e forse della stessa stirpe era quello Stefano duca nominato di sopra, indizio che que’ potenti con­ti tusculani aveano nel secolo X esteso fin quì il loro potere. In una pergamena del 1001 si ricorda una chie­sa di s. Pietro posta dentro il castello ariciense, ed una vigna vecchia situata subtus castro ariciense pres­so la via publica: questo è un documento positivo che allora la città propriamente detta che era nel basso, non solo era affatto abbandonata, ma ridotta a vigne come lo è oggi; ed inoltre che la popolazione della Terra era considerabile poiché oltre la chiesa di s. Ma­ria menzionata di sopra, un’altra ne conteneva sacra a s. Pietro. Da due altre carte del 1011, e 1022 si trae, non solo, che una contrada del territorio aricino dice­vasi ad Pilum, forse per qualche sepolcro o pilo di mar­mo ancora esistente, ma ancora che continuava ad es­sere abitata, ed aver nome di castello ariciense.
Sul principio del secolo XII. era tornata questa Terra sotto il dominio della sede apostolica: allora però Pasquale II. volendo ricompensare Tolomeo conte tusculano delle fatiche incontrate per sostenerlo, gli die­de l’Ariccia, siccome narra Pandolfo Pisano nella sua vita inserita dal Muratori ne’ Rerum Italic. Script. T. III. P. I. pag. 358. Così ritornò questo castello in potere de’ conti tusculani, che io credo che lo ritenessero fino alla distruzione di Tusculo avvenuta l’an­no 1191. Allora sembra che passasse ai Malebranca, i quali è certo che la ebbero fino al 1223. In quell’anno Malebranca figlio di Corrado Malebranca la ven­dette per se, e pe’ suoi alla sede apostolica allora oc­cupata da papa Onorio III. per la somma di 2500. libre di buoni provisini del senato: atto che si conser­va nel codice di Cencio Camerario nella Biblioteca Va­ticana. Ed è da osservarsi circa questo istromento, che l’Ariccia chiamata castrum viene venduta con tutti i di­ritti ed azioni, quas et quae tana ab ecclesia roma­na…. tam iure pignoris vel feudi, guam etiam hereditario iure, et nostra seu paterna, vel avitica aquisitione habemus: ora possedendola il Malabranca nel 1223, e ricordando gli acquisti del padre e dell’a­vo, ci riconduciamo verso la epoca della distruzione di Tusculo, quando cessarono di averla i conti tusculani. Onorio III, che la comprò da’ Malabranca era, come è noto. della famiglia de’ Savelli, anzi fu quegli che largamente dotolla; è pertanto probabile che desse a governare ai suoi anche questo castello, senza però di­strarlo dal dominio diretto della sede apostolica, sotto il quale chiaramente si trova nel 1262. La chiesa di s. Maria vien ricordata nel 1281 e nel 1296 in varie carte riportate dal Nerini nella storia di s. Alessio. Frattanto l’anno 1290 Cristoforo Savello s’impadronì dell’Ariccia, come pure di Albano, Nemi, Castel Gan­dolfo ec. L’anno 1315 però era in potere di Paolo Conti.
In quel secolo di sconcerti, e di guerre civili sem­bra, che questa Terra rimanesse affatto deserta; imperciocché nella bolla di Bonifacio IX dell’anno 1399 riportata dal Ratti nella Storia di Genzano p. 109 si nomina il tenimento dell’ Ariccia ivi per corruzione detto della Risa, e non si fa mai menzione della Ter­ra. Ivi si legge pure, che allora quel tenimento era sotto la defensoria di Buzio Savello, e si domanda che venga posto sotto quella del capitano e castellano di Marino, il che venne accordato. Rimanevano in pie­di però le chiese: di s. Maria, s. Pietro e s. Maria in Petrola, le quali nel 1404 vennero da Bonifacio IX. soppresse, come si trae da un’altra bolla riportata dal­lo stesso scrittore, e donate insieme con tutto il terri­torio dell’Ariccia al monastero delle Tre Fontane. Era ancor diruto nell’anno 1473, quando essendo divenuto proprietà del monastero di Grotta Ferrata fu dal car­dinale Giuliano della Rovere, che ne era commenda­tario cambiato con Mariano Savelli per l’altro castello egualmente diruto, chiamato il Borghetto. Veggasi il Ratti nella Storia della Famiglia Sforza p. 314. Quel Mariano essendo della linea di Palombara, dopo aver preso possesso dell’Ariccia la cambiò con Pier Giovanni Savelli fondatore della linea dell’ Ariccia l’anno 1474. Questi riedificò la Terra dove oggi si vede. Ai 26 di luglio 1482 l’Ariccia fu occupata dal duca di Calabria, ma per poco tempo la ritenne, poiché ai 19 di agosto dello stesso anno fu ripresa dalle genti della Chiesa sic­come si legge nel Diario del Nantiporto, e nell’opu­scolo de Bello inter Xystum IV. etc. inseriti dal Mu­ratori ne’ Rerum Italicar. Script. T. III. p. II. p. 1076 e 1152. I Savelli possederono questa Terra fino all’an­no 1661. Allorché Giulio Savelli la vendette a Mario Chigi fratello di papa Alessandro VII. ed a Flavio car­dinale ed Agostino di lui nepoti per la somma di scu­di 358,000, e questa famiglia la possiede ancora.
Strabone lib. V. c. III. §. 12 dice: “Dopo l’Al­bano è Aricia, città sulla via appia: da Roma vi so­no 160 stadii; il luogo è concavo; nulladimeno ha una cittadella sicura.” Ora da questo passo si trae: 1°. che l’Aricia trovavasi dopo Albano: 2°. che era sul­la via appia: 3°. che la città propriamente detta era nel basso: e finalmente che era difesa da una forte ed alta cit­tadella. Quanto alla distanza di 160 stadii essa va d’ac­cordo col fatto, se si calcolano que’stadii per stadii pitici di 10 a miglio: è evidentemente esaggerata se si cal­colano per stadii olimpici di 8 a miglio, misura, della quale Strabone fa più communemente uso. L’itinerario detto di Antonino la pone correttamente m. XVI. di­stante da Roma: altrettanto mostra il gerosolimitano; non così la Carta peutingeriana nella quale da Roma a Boville pongonsi miglia X. da Boville all’Ariccia III. Ma il fatto è che l’Ariccia antica come la moderna stava XVI. m. distante da Roma, e Boville XII. per­ciò è da credersi che que’ che nel secolo XIV copia­rono quella Carta, copia unica che ci rimanga, dimen­ticarono due unità dopo il X, ed una unità dopo il III e ne risultò uno di que’ tanti errori che rigurgitano in quel documento prezioso. Dionisio Alicarnasseo più concorde col fatto e cogl’itinerarii sovraindicati, allorché nel lib. VI. c. XXXII. narra la mossa degli Au­runci contra i Romani dice che i due eserciti s’incon­trarono insieme vicino alla città di Aricia 120 stadii di­stante da Roma.
Stando alla descrizione di Strabone, ed alla distan­za di XVI. m. seguendo la via appia si ravvisano le vestigia di quest’ antica città sotto la Terra moderna, che ne conserva il nome, ed occupano una convalle corrispondente al concavo di Strabone, pel tratto di un mezzo miglio in linea retta, dal così detto parchet­to, fino quasi alla celebre sostruzione della via appia. Gli avanzi più considerabili sono nell’orto di mezzo, dove io per la prima volta scoprii nel 1817 la cella del tempio di Diana Aricina, ridotta oggi a casa, rusti­ca, costretta di grandi massi quadrilateri di pietra al­bana, commessi insieme con molta arte, senza ombra di cemento. Questa per lo stile, la pianta, e le dimen­sioni somiglia molto a quella di Giunone Gabina, e co­me quella è rivolta verso sud-ovest: occupa il centro della città antica: ed avea un portico di ordine dorico con quattro colonne di fronte, e quattro ne’ lati, le qua­li col pilastro in che andavano a terminare, non aven­do il tempio colonne nella parte posteriore, formava­no quattro intercolunnii ne’ lati, e tre nella fronte. Sor­geva questo tempio sopra un basamento alto almeno 7 piedi, che nella fronte avea 11 gradini. La cella è 45 piedi lunga nell’interno, e 21 larga. Dietro di essa so­no ruderi di opera laterizia, avanzi della sostruzione fatta ne’ tempi imperiali per reggere il monte. Altre rovine di opera laterizia si veggono a qualche distanza del tempio verso sud-est, forse residui di terme edifi­cate sotto gli Antonini. Dietro queste vestigia veggon­si sostruzioni antichissime costrette di massi irregolari di pietra albana seguendo queste sostruzioni si giunge ad un emissario costrutto nello stesso modo, il quale dentro è diviso in due spechi, e sembra edificato per lo scolo delle acque del monte sovrastante, dove è la Terra moderna, e dove secondo ciò che si disse fu la cittadella antica.
Di questa cittadella rimangono pochi avanzi del recinto in tetraedri regolari a strato alternato presso la porta moderna verso Albano, dove si riconosce, che quel recinto fu rifatto da Silla nella deduzione della colonia: ivi si gode una veduta deliziosa della valle a­ricina, volgarmente detta Vallericcia, cratere di un an­tico lago di forma ellittica, di circa 8 miglia di circon­ferenza. La Terra moderna contiene un ampio palazzo baronale edificato dai Chigi, ed una bella chiesa dedi­cata all’Assunzione della Vergine, edificata da Alessan­dro VII. l’anno 1664 con architettura del Bernini. Es­sa è di stile semplice e corretto, di forma rotonda, iso­lata, ornata esteriormente di un portico e due campa­nili, ed internamente da otto pilastri che reggono la cupola e servono di divisione agli altari. La cupola è ornata internamente da rosoni di varia forma di stuc­co, lavoro di Antonio Raggi, di cui sono tutti gli altri stucchi che adornano questa chiesa. L’Assunzione della Vergine nella tribuna è lavoro a fresco del Borgognone: il s. Tommaso di Villanova è di Raffaele Vanni: il s. Giuseppe è di Lodovico Gimignani: il s. Antonio è di Giacinto di lui fratello: il s. Francesco di Sales è del Borgognone: il s. Agostino è di Bernardino Mai: ed il s. Rocco è del prete da Farnese.

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