Vicovaro – Varia

[t. 3, pp. 478-491]

Vicus Variae Vicovarius.
Terra della Comarca di Roma posta nel distretto di Tivoli donde è distante circa 8 m. e perciò 27 da Roma. Essa siede sopra, un ripiano di depositi ed in crostazioni fluviali addossati alla falda meridionale del monte Lucretile dall’Aniene che oggi le scorre sotto. Questo terrazzo naturale verso il fiume è tagliato a picco; verso oriente è men dirupato. Oggi la terra contiene secondo l’ultimo censimento 1030 abitanti; anticamente però la sua popolazione fu più numerosa, siccome mostrano le vestigia de’ suoi recinti.

Imperciocchè queste dimostrano che Vicovaro sta sopra un antico luogo: che veniva difesa da due cinte di mura verso mezzodì, cioè verso il fiume, uno inferiore presso la riva dell’Aniene: l’altro superiore che costituiva la sua acropoli, ed alla quale si restringe la terra attuale: fra questi due recinti passava la via valeria.

Riconoscendo pertanto da questi avanzi che Vicovaro è sorto sopra un luogo antico è d’uopo di rintracciarne il nome, che fortunatamente si conosce con tale certezza che poche città antiche ne possono vantare una eguale. Ho notato di sopra che questa terra è circa 8 m. distante da Tivoli: che essa è sulla via valeria: ora nella carta peutingeriana sulla via valeria, 8. m. di là da Tibur viene notata Varia: questa pertanto è la città antica, sulla quale siede la terra odierna, di cui il nome deriva direttamente da Vicus Variae, e perciò resta esclusa la etimologia immaginaria che vuol derivarlo da Vicus Varronis inventata nel risorgimento delle lettere dal Biondo, e seguita ciecamente dal Merula e da altri scrittori posteriori; e ciò che è ancor peggio dalle iscrizioni publiche locali. Altri vi hanno supposto una città di Valeria fidandosi di un passo corrotto di Strabone lib. V. c. III. e di una interpretazione falsa di Anastasio Bibliotecario nella vita di Bonifacio IV: e perciò il Sabellico la chiamò in latino Vicus Valerius; ma in Strabone in luogo di Ουαλερια dee leggersi Ουαρια, poichè una città di Valeria non ha mai esistito in queste parti, dove al contrario la carta peutingeriana, come si vide pone Varia, e se nel Bibliotecario si legge che papa Bonifacio IV fu natione Marsorum de civitate Valeria si esclude da questo passo stesso che Vicovaro fosse mai chiamato Valeria sendo che il territorio de’ Marsi è troppo lungi di là. D’altronde è noto, che ai tempi di Anastasio cioè nel IX secolo per Valeria, intendevasi la provincia attraversata dalla via di questo nome, e perciò quello scrittore volendo indicare che Bonifacio IV. era nativo del distretto de’ Marsi nella provincia Valeria, si espresse ne’ termini riferiti di sopra. Quindi i due più dotti scrittori sulla geografia antica Cluverio e Cellario non esitarono un istante per ravvisare in Vico Varo il sito di Varia antica, rimanendo pienamente convinti dalla coinciiienza del nome e dalla distanza da Tibur, punto riconosciuto.

Varia era in origine città degli Equi, o Equicoli come si riconosce dai due geografi testè ricordati, e prima di loro era stato notato dal Merula Cosmogr. Part. Il. lib. IV. p. 571. e come può trarsi da Strabone adottando la correzione indicata di sopra. Dopo la divisione di Augusto,che comprese nel Lazio il distretto degli Equi, dome pur quello degli Ernici, de’ Volsci, degli Ausoni e de’ Rutuli, Varia divenne città latina, e come tale citasi da Strabone insieme con Carseoli e con Alba Fucense, colonie romane nel territorio degli Equi dedotte per reprimere le ribellioni degli Equi e de’ Marsi. Veggasi Livio lib. X. e. I. III. e XIII. e Plinio lib. III. §. XVII. La sua giurisdizione allora estendevasi nella valle Ustica fino a comprendere la villa di Orazio, il quale Epistol. lib. I. ep. XIV. afferma che di là andavano ad assidersi nel consiglio communale cinque de’ suoi dipendenti:

Villice sylvarum et mihi me reddentis agelli

Quem tu fastidis habitatum quinque focis et

Quinque bonos solitum Variam dimittere patres:

E l’ultimo verso di questo passo determina positivamente la ortografia del nome di questa città che conservavalo ancora nel secolo VII. della era volgare, siccome si trae dalla carta peutingeriana. Nella nuova divisione fatta da Adriano di tutta la Italia, Varia fu inclusa nella provincia denominata Valeria. Le scorrerie di Autari, e di Agilolfo re de’ Longobardi che dierono il guasto alla Sabina, il primo l’anno 589, e l’altro l’anno 593 descritti con tristissimi caratteri da s. Gregorio Magno nella lettera a Grazioso vescovo nomentano, e nella Omelia VI. del lib. II. e da Paolo Diacono lib. III. c. XXXIII. apportarono fieri danni a questa città. Altri e più fieri ancora furono i guasti che ebbe a soffrire dai Saraceni descritti da papa Giovanni VIII. nelle lettere a Carlo il Calvo circa l’anno 877, ed allora sembra che rimanesse abbandonata. Veggasi il Labbé Concil. T. IX. epist. Johan. VIII. ep. XXX. e XXXII. Nel secolo XII. sulle rovine della città antica formossi a poco a poco un villaggio che perciò fu detto Vicus Variae, e Vicovarius, donde procede direttamente il nome moderno di Vicovaro. Infatti la prima volta che ho incontrato questo nome è in Cencio Camerario l’anno 1191 nel libro de’ Censi inserito dal Muratori, nel Tomo V. delle Antiq. Medii Aevi il quale ricorda alla p. 851 la chiesa di s. Cosimato de Vicovario, quella stessa che nel secolo antecedente l’anno 1074 trovasi indicata nella bolla di Gregorio VII. a favore del monastero dl s. Paolo fuori delle mura, semplicemente col nome di Monasterium s. Cosmatis situm in valle tiberina, cum omnibus suis pertinentiis, senza altra aggiunta, indizio che allora Vicovaro era affatto deserto.

Circa la stessa epoca, cioè del 1191, papà Celestino III. diè questa terra in pegno agli Orsini, siccome ricavasi dalla vita d’Innocenzo III. suo successore immediato, inserita ne’ Rerum Italic. Script. T. III. P. I. p. 564. Questi ne divennero signori, l’ampliarono, vi costruirono una rocca, e lo fortificarono in guisa che nel secolo XIII. era considerato come un castrum valde forte. Rer. Ital. Script. T. VIII. p. 596. Questa opinione della fortezza di questa terra continuossi ad avere anche nel secolo XVI; imperciochè sul finire di quel secolo Merula l. c. lo descrive come un castello cum natura loci tum opere munitissimum. Egli narra che nell’assalto datogli l’anno 1533 vi perì colpito da una palla Ludovico Gonzaga generale dell’esercito di Clemente VII. Gli Orsini ritennero la signoria di Vicovaro fino al secolo XVII. allora lo venderono ai Bolognetti, che lo posseggono ancora e ne hanno ampliato il palazzo e rifabbricata la chiesa. In questa terra ebbe i natali il celebre Marcantonio Coccio soprannomato il Sabellico, che tanto si distinse nella letteratura durante il secolo XV. e nel primo periodo del XVI. Veggasi Giovio Imag. lib. I.

La pianta dell’antica città, come si trae dagli avanzi delle mura primitive esistenti e dalla natura del luogo può ridursi ad un parallelogramma diviso in città inferiore e città superiore ossia acropoli. A piè della città antica dal canto di Tivoli la via consolare è attraversata dal Ronci rivo che scende dalla falda del Lucretile, e che va a scaricarsi ivi dappresso nell’Aniene. Questo traversasi sopra un ponte moderno: anticamente sembra che fosse raccolto in un acquedotto, del quale rimangono ancora le vestigia. Di là da esso a destra è una chiesa rurale dedicata alla Vergine sotto la denominazione di Madonna di Vicovaro, o Madonna del Sepolcro. Di là da essa è un bivio: la via: a sinistra continua a seguir le traccio della Valeria, quella a destra scende ad un ponte sull’Aniene, che esistè ne’ tempi antichi, imperciocchè rimangono ancor le vestigia del primitivo, sulle quali venne edificato il moderno. È questa una prova che il bivio è antico anche esso, e che la strada di là dal ponte è un diverticolo, il quale oltre mantenere le communicazioni con Sassula ed Empulum, castelli de’ Tiburtini, de’ quali ho trattato negli articoli rispettivi penetrava nel paese degli Ernici. Ora scendendo al ponte, sotto le case moderne è ancora visibile l’avanzo del recinto che chiudeva la città bassa: i massi sono parallelepipedi irregolari di pietra locale, che è una specie di travertino, e sono lunghi 6 piedi, alti 2 1/4 e dai due strati ancora esistenti apparisce che seguivano il declivo del monte verso il fiume, il quale sembra che in origine scorresse più dappresso alle mura. Queste essendo rimaste corrose vennero rinfiancate nel VII. secolo di Roma con opera incerta. Avanti a questo avanzo si riconosce ancora un residuo dello speco dell’antico acquedotto di Claudio rivestito di signino, il quale malgrado l’asserzione del Cassio Corso delle Acque T. I. p. 102 traversava in questo punto l’Aniene nella direzione del ponte attuale come avea bene osservato il Fabretti De Aquis et Aquaed. Diss. II. Appressandosi al ponte e volgendo l’occhio a sinistra sul margine del fiume scorgonsi quattro fori rotondi orizzontali, che servivano probabilmente per scolo della città. Il ponte è a tre archi ed è moderno, ma rimangono le vestigia del più antico, che era di massi quadrilateri, come si ravvisa alla testata ed al primo pilone verso Vicovaro, sul quale veggonsi ancora le traccio di un archetto de’ tempi bassi, indizio di qualche risarcimento. Sull’ingresso poi sono avanzi considerabili di un arco di opera laterizia bellissima che per argomento di analogia di costruzione può credersi del tempo di Trajano: esso probabilmente venne eretto come un monumento che attestasse i grandi ristauri e miglioramenti, che quell’ottimo imperadore arrecò agli acquedotti specialmente della Marcia, della Claudia, e dell’Aniene Nuova. E varcando in questo luogo il fiume si può andare in due ore a Castel Madama, e di là a Tivoli in poco più di una. La strada per andarvi, dopo il ponte sale ed è fiancheggiata da belle rupi di una specie di travertino, seguendo un andamento in genere poco regolare, poichè ora si scosta, ora si avvicina al fiume. Circa un miglio dopo il ponte entra nella selva di Castel Madama, e quindi costeggia quattro fimbrie del monte di Siciliano. Verso la metà del cammino si perviene presso la sostruzione e la opera arcuata dell’Aniene Nuova. Al passaggio di un rivo scorgesi a destra un avanzo dell’arcuazione della Claudia, e presso il fiume è lo speco della Marcia. Di là da questo punto si scoprono altri avanzi dell’acquedotto della Claudia e dell’Aniene Nuova, e dopo aver tragittato un altro rivo si perviene ai piedi dell’ardua salita di Castel Madama, terra, della quale ho fatto menzione altrove.

Ora tornando a Vicovaro, dopo il bivio notato di sopra, la strada grande sale alla terra, che in questa parte null’altro presenta degno di particolare osservazione che la chiesa di s. Antonio a destra della via, la quale è ornata di un piccolo portico sostenuto da quattro colonne antiche di breccia con capitelli di ordine dorico che per la forma richiamano quello delle cariatidi del Pandrosio di Atene, e che sono ricchi e ben lavorati. Per lo stile possono dirsi lavoro de’ tempi di Claudio, o di Nerone. Di là da questa chiesa, dove si volge a sinistra per salire alla terra veggonsi a destra gli avanzi del recinto primitivo della cittadella di Varia. I massi sono grandi, ma meno irregolari di quelli della cinta inferiore: sono però messi insieme senza badare affatto al ribattimento delle commettiture: alcuni hanno fino ad 8 piedi ed un quarto di lunghezza, e più di 2 e mezzo di altezza: il muro è a doppia fodera ed in questo luogo conservasi ancora la traccia dell’apertura della porta antica della cittadella. Volgendo a destra entrasi in una strada che ricorre parallela quasi alla via consolare, e che di là dalla porta orientale della terra si unisce con essa presso la osteria. Lungo questa via osservarsi frammenti, pezzi di colonne, un capitello ionico di 1 piede e mezzo di diametro, ed uno dorico simile a quelli già notati di s. Antonio, e che ha lo stesso diametro di un piede e mezzo. Dopo la chiesa di s. Salvatore incontrasi la casa del governatore architettura del secolo XVI. e quindi si giunge alla piazza del Duomo, dove è una fontana, per la quale fu posto in uso un sarcofago antico striato colle figure de’ coniugi pe’ quali servì, e del Genio dell’Imene fra loro. Il duomo è dedicato a s. Pietro ed è succeduto alla basilica eretta ad onore dello stesso santo da Simmaco papa sul principio del secolo VI della era volgare un miglio più verso Tivoli nel fondo Pacciano, o Paciniano, secondo Anastasio Bibliotecario, della quale Olstenio nelle note a Cluverio p. 783 dice vedersi ancora le rovine a’ suoi giorni e chiamarsi s. Pietro Vecchio. La chiesa odierna fu riedificata l’anno 1755 da Girolamo Alamandino Bolognetti, siccome attesta la lapide ivi apposta. È grande, ben mantenuta, ma di architettura non corretta, ed ornata di quadri non ispregevoli del Muccini, che sull’altar maggiore rappresentò Gesù Cristo che affida a s. Pietro il suo gregge. Per la strada ampia che si apre ad occidente della chiesa si perviene ad un grazioso tempietto ottagono eretto circa la metà del secolo XVI. dagli Orsini conti di Tagliacozzo, signori della Terra, e dedicato da Giovanni vescovo di Trani all’apostolo s. Giacomo, siccome si legge nella iscrizione seguente posta sopra la porta:

TALIACOCIADAE . COMITES . VRSINA . PROPAGO.

FVNDAVERE . SACRVM . DEVOTA . MENTE . SACELLVM.

HAC . HERES . TLANI . PRAESVI . DE . PROLE . IOANNES.

DIVE . IACOBE . TIBI . MERITA . PIETATE . DICAVIT.

Vasari nella vita di Filippo Brunelleschi sul fine, nominando i suoi discepoli dice, che uno fu Simone, il quale dopo aver fatto in Or s. Michele per l’arte degli speziali quella madonna, morì a Vicovaro facendo un gran lavoro al conte di Tagliacozzo, lavoro che non può essere se non questo, considerando, che Brunelleschi essendo scultore ed architetto insieme, ammaestrò i suoi discepoli nelle stesse arti, che il lavoro partecipa di ambedue queste arti, e che lo stile è appunto quello del secondo periodo del secolo XV. La facciata rivolta ad oriente che è la principale presenta le figure in marmo di varii santi, come s. Pietro, s. Andrea, s. Giovanni Battista, s. Giacomo, s. Caterina, s. Agata ec. Sulla porta dove è la iscrizione vedesi espressa in bassorilievo la vergine, alla quale s. Pietro e s. Giacomo presentano i due Orsini, cioè Francesco e Giovanni che ordinarono questo lavoro. Divotisssima è la espressione degli angeli ivi effigiati, ed hanno la grazia tutta propria di quel secolo: nel resto in queste sculture a molta diligenza di taglio si unisce molta secchezza di mossa: l’architettura risente del gotico in quelle colonnette sfilate che corrispondono agli angoli; nulladimeno l’edificio è svelto, ed isolato, e tutto di marmo, onde riesce vago e ricco insieme. Dentro una iscrizione moderna ricorda il nome di Francesco conte di Tagliacozzo che lo fondò, e quello di Pio II. che lo dotò d’indulgenze: una immagine della vergine addolorata, che ivi si venera, merita particolarmente osservazione, essendo un quadro ben disegnato ed egregiamente dipinto.

Da questo tempietto passando al palazzo baronale meritano particolare rilievo gli avanzi del pavimento di una della antiche vie della Varia di Orazio, costrutto al solito di lava basaltina, e sul quale sono fondate le case moderne. Il palazzo in parte è opera degli Orsini, di cui si conservano le armi, fondato fino dal secolo XIII. in parte è de’ Bolognetti che a loro succedettero nel possesso di questo feudo. Sul primo ripiano delle scale vedesi incastrata nel muro la iscrizione seguente già riportata dal De Sanctis, sebbene con qualche scorrezione, nella sua bella dissertazione della Villa di Orazio p. 59.

MVNATIA S P F

C . MVNATIVS

O. L . PAMPHIL

IN AGR . PXIIX

Egli dice che fa trovata fra Vicovaro e Cantalupo, probabilmente lungo l’andamento della via valeria: è un cippo sepolcrale, che appartiene a Munazia figlia di Spurio Munazio, ed a Caio Munazio liberto di Caia, di soprannome Panfili, il cui sepolcro occupava entro il campo 18 piedi. É noto, che la gente Munazia era di origine tiburtina: il luogo dove fu scoperta l’anno 1758 era probabilmente un fondo di questa gente. Più importante però è il marmo seguente, giacchè è istorico, che ivi pur vedesi affisso, e che sembra aver servito di piedestallo ad una statua di Marco Elvio Rufo, il quale fu figlio di Marco, appartenne alla tribù camillia, ebbe l’onore di ottenere la corona civica, fu centurione primipilo, cioè della prima centuria de’ triarii, e concesse, ossia edificò un bagno ai cittadini del municipio, ed agli abitanti:

M. HELVIVS M . F . CAM . RVFVS

CIVICA . PRIM . PIL

BALNEVM

MVNICIPIBVS ET INCOLIS

DEDIT

Essendo stata scoperta questa lapide nel primo periodo dello scorso secolo in Vicovaro è prova che il bagno del quale ivi trattasi era quello di Varia stessa, e non di Tibur, come alcuni pretendono, appoggiandosi alla origine tiburtina della gente Elvia, di che non cade dubbio, ma un Elvio poteva beneficane anche altri comuni, e forse gli Elvii avendo i loro fondi da questa parte appartenevano egualmente a Tibur ed a Varia. Un recente scrittore sopra Tivoli è andato più oltre e confonde questo bagno di Marco Elvio Rufo con quello ricordato da Scevola nel Digesto Lib. XXXII. tit. I. leg. 35. §. 3. con questi termini: Codicillis confirmatis ita cavit: Tiburtibus municipibus meis amantissimisque, scitis balineum iulianum iunctum domui meae ita ut publice sumptu haeredum meorum et diligentia decem mensibus totius anni praebeatur gratis. Come ognun vede ignota è la persona, e non si tratta di un bagno dato municipibus et incolis, ma di un bagno particolare soprannomato giuliano, perchè pertinenza di un Giulio, del quale viene legato l’uso per 10 mesi di ciascun anno ai Tiburti.

Il Revillas communicò pel primo questa lapide al gran Muratori, che la inserì nel Tomo I. delle iscrizioni p. CDLXXVI. n. 11. Cassio Corso delle Acque T. I. p. 103, De Sanctis p. 40, Chaupy Decouverte de la Mais, d’Horace T. III. p. 254, e Sebastiani Viaggio a Tivoli p. 382 la riprodussero con grandi errori: io pel primo la diedi esatta nel Viaggio Antiquario alla villa di Orazio p. 26 e la illustrai. Notai in quella operetta che Marco Elvio Rufo è quello stesso, che fece prodezze di valore sotto Lucio Apronio proconsole dell’Africa nella guerra contro Tacfarinate all’assedio di Thala l’anno 20 della era volgare, onde riportò dal proconsole collane, e l’asta pura, e da Tiberio la corona civica, della quale in questa iscrizione si fregia: veggasi Tacito Annal. lib. III. c. XXI. Salendo al secondo ripiano vedesi dirimpetto la lapide di Valeria Massima, la cui scoperta ha decisa la questione del sito della villa di Orazio: siccome fu da me riportata di sopra nel tomo I. p. 295 all’art. BARDELLA, perciò mi dispenso di qui riportarla di nuovo.

Aderente alla piazza baronale è la porta superiore della Terra, per la quale poco dopo si raggiunge la via valeria: passasi dinanzi la osteria detta Testaccio e dirimpetto veggonsi belli esempli di petrificazioni fluviali, che mostrano a quale altezza ne’ tempi anteriori alla storia giungesse in questo sito il livello del fiume. Circa il miglio XXVII. girasi intorno ad una convalle del Lucratile, e sulla opposta riva attira lo sguardo il cono selvoso di Saracinesco. Si giunge poscia alla chiesa di s. Rocco ed appena passata questa si apre dinanzi una veduta magnifica, alla quale molto contribuisce il convento di s. Cosimato coronato di cipressi e posto sopra rupi giallastre. Presso questa chiesa a sinistra sono le vestigia di una gran conserva spettante al fundus valerianus ricordato dal Bibliotecario nella vita di Silvestro I. e donato alla chiesa de’ ss. Silvestro e Martino a’ Monti in Roma.

S. Cosimato è una chiesa con cenobio annesso de’ pp. francescani riformati 28 m. circa lontana da Roma sulla sponda destra della via consolare in un ripiano sorretto da rupi bagnate dall’Aniene, che scorre in fondo ad una valle profonda, rompendosi fra sassi con impeto tale che il mormorio delle sue acque percuote le orecchie anche di chi è lontano. Ivi era stato fondato un monastero fino dal secolo VIII ed apparteneva ai benedettini: questo corse pericolo di essere devastato dai Saraceni verso l’anno 877, allorchè que’ barbari, dopo aver preso e distrutto Varia, come indicessi di sopra, furono secondo una leggenda antica colti in questi dintorni e sconfitti,non già da Carlo Magno, ma da Giovanni VIII e dalle genti di Carlo il Calvo. Su tale incursione abbiamo due lettere scritte da quel papa all’imperadore ai 10, ed ai 13 di febbraio dell’anno 877 e riportate dal Labbé Concil. T. IX. Tale vittoria è il soggetto delle pitture che adornano le lunette dell’ingresso di questa chiesa fatte l’anno 1670. La origine primitiva poi di questo monastero si fa risalire fino al secolo VI. quando s. Benedetto ritirossi nelle caverne de’ sottoposti dirupi. Del monastero si fa menzione nella bolla di Gregorio VII. dell’anno 1074. ricordata di sopra, e da essa appariste che allora dipendeva da quello di s. Paolo fuori delle mura. Questo sembra che l’anno 1192 fosse abbandonato, giacchè Cencio Carcerario nomina la chiesa soltanto, e questa come quella che pagava censo alla Chiesa Romana: Muratori Antiq. Medii Aevi T. V. p. 851. I pp. riformati vi sono stati posti nel secolo XVII. Vedendosi ivi dappresso colonnette di granito, e di bardiglio: e nella costruzione de’ muri massi quadrilateri di travertino, credo che questo luogo fosse occupato da qualche fabbrica antica, e forse da un tempio.

Traversando il giardino del convento si discende per gradini tagliati nella rupe alle grotte scavate nelle petrificazioni dell’Aniene: esse meritano di essere visitate, ed una se ne mostra, dove s. Benedetto si ritirò, la cui volta è sorretta da una colonna naturale. Dopo aver visitato le grotte si continua a discendere per osservare gli spechi degli acquedotti tagliati pure nel sasso; quello nel quale si può penetrare e che si percorre per lungo tratto è rivestito di opera signina od astraco fino alla imposta della volta, cioè un poco più di quello fin dove l’acqua salì, come si ricava dal deposito, o tartaro lasciato dall’acqua medesima; esso è alto circa 5 piedi ed un quarto; largo circa 4, non essendo sempre di altezza eguale, nè di eguale larghezza a cagione della irregolarità della rupe: esso appartenne alla Claudia siccome fu notato a suo luogo. Da questo speco discenderi ad un’altra grotta, dove la tradizione narra, come s. Benedetto fu per miracolo preservato da un avvelenamento tramato contra lui dai monaci, e questo fatto è ivi rappresentato in pittura. Quindi si scende all’Aniene, sempre rapido e fragoroso, dove è un avanzo dell’arcuazione che nel tempo stesso serviva di ponte, costruita di opera reticolata per far passare all’acqua Marcia il fiume, e sotto questi avanzi sono quelli di un ponte de’ tempi bassi distrutto pure dal fiume. Da questo punto seguendo la strada della mola si perviene di nuovo alla via consolare di quà da s. Cosimato.

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