Gennaro M.

[t.2, pp. 105-108]

E’ questo il contrafforte più alto, e più vicino a Roma del dorso che gli antichi chiamarono monte Lucretile, e che fu celebrato da Orazio; esso fu da alcuni confuso co’monti Ceraunii ricordati da Dionisio nel lib. I. ma que’monti, che si distinguevano per le loro punte acuminate percosse sovente dai fulmini, erano solo 80 stadii, o 10 miglia distanti da Rieti nelle vicinanze di Vesbola, cioè fra i fiumi Velino e Turano, onde corrispondevano alle montagne, che oggi chiamano di Nuria non lungi da Capradosso, presso cui dee rintracciarsi il sito di Vesbola. Il nome di Gennaro lo ebbe, non come il volgo pretende dal freddo, che vi si prova, poiché più fredde e nevose sono altre cime a settentrione di esso; ma per altre cause. Una chiesa di s. Gennaro esisteva alle sue falde verso Marcellina fin dal secolo X della era volgare, e di essa fa menzione una carta spettante all’anno 956, esistente nella biblioteca Barberini, dalla quale apparisce, che Giovanni vescovo di Tivoli concedeva un fondo Caniniano cum ecclesia s. Ianuarrii. Forse da questa chiesa ebbe nome il monte, ovvero da un Ianuarius, o Ianuaria, che vi ebbero possidenze dappresso; ed infatti tre lapidi si conoscono, una di Settimio Sabino Ianuario, l’altra di Scanzia Ianuaria, e la terza di Roscia Ianuaria, che furono scoperte alle sue falde, e che l’autore del Viaggio a Tivoli, edito l’anno 1828 riporta. Dopo la cresta del monte Vulturella, oggi Mentorella, sopra Guadagnolo, questa è la punta più alta dei monti che immediatamente coronano la pianura dove Roma si asside; quindi fu scelta da Boscovich e da Le Maire per le loro osservazioni astronomiche e trigonometriche, tendenti a determinare la misura del grado del meridiano di Roma. Servì pure a sir William Gell per la triangolazione della mappa, che è il soggetto di quest’analisi. Boscovich determinò la distanza fra la punta di monte Gennaro, e la croce della cupola di s. Pietro a 22 miglia e 935 passi: e l’altezza perpendicolare ad 837 passi = 654 tese e mezza = 4185 piedi inglesi, che sono quasi geometricamente identici ai piedi romani. L’autore sovraindicato del viaggio di Tivoli sulla fede del quadro geografico storico dello Stato Pontificio di Luigi Antonio Senes di Trestour estolle l’altezza di questa punta dal livello del mare a 4430 piedi romani. Le osservazioni poi publicate l’anno 1824 dagli astronomi della specola del Collegio Romano, Conti e Ricchebach stabiliscono la sommità di questo monte, che essi designano col nome di punto più elevato di Monte Gennaro a 3955 piedi parigini ed 8 pollici = 4285 piedi inglesi e 3. pollici.
Da tre lati si può ascendere a questa punta servendosi di cavalli ; altri sentieri vi sono per coloro che vanno a piedi: i lati per ascendervi sono: quello verso Palombara, strada che se è la più breve è ancora la più ripida: quello di s. Polo che almeno fino alla Terra di questo nome offre l’accesso più commodo: e quello dal canto di Licenza. Le cime principali di questo monte sono: il pizzo, che è quella che domina immediatamente la falda rivolta a Roma, e che si presenta sempre come una punta acuminata: la Morra nocciuolo particolare che sovrasta immediatamente alla Terra di s. Polo, e che da Roma ha l’apparenza di un ginocchio: ed il monte della Guardia che è una specie di dorso verso settentrione che si dilunga nella direzione da occidente ad oriente, e serve come di barra alle due cime sovraindicate da quella parte. Di queste tre punte, tutte altissime, il Boscovich prescelse la prima per le sue osservazioni, perché il monte della Guardia, quantunque abbia un orizzonte vastissimo verso occidente, e verso settentrione, ha la veduta di Roma velata appunto da questa cima, denominata il Pizzo; e la Morra, sebbene abbia la veduta completa di Roma e di tutta la pianura romana senza alcun impaccio, è così difficile a salirsi, che le osservazioni sarebbero state soverchiamente protratte. Il Pizzo non presenta nè l’inconveniente del monte della Guardia, nè le difficoltà della Morra, e gode d’altronde i vantaggi di ambedue. Quindi fu scelto dal Boscovich come da Gell per le loro osservazioni.
Solinga ed amena è la sommità di questo monte imponente e vestito di boschi di alberi secolari, meno nel vasto ripiano denominato il pratone, dove i bestiami ne’ mesi estivi trovano fresco e pastura. E quanto al Pizzo è degno di osservazione il gran cumulo di pietre rozze che ivi si vede ammassato, il quale ricorda que’ mucchi di sassi consacrati a Mercurio e di cui fanno menzione gli antichi scrittori, e soprattutto Esichio. La veduta che da quella cima si gode è non solo vastissima ma così bene composta, che diresti di essere in mezzo ad un immenso teatro, la cui cavea viene formata dai monti etruschi, sabini, e latini, ed il cui centro, o la scena viene determinata dalla zona argentea del mare tirreno: ivi, rammentando l’epoca primitiva della storia di Roma, d’uopo è riconoscere il fatto, che le genti, che in quel punto si riunirono, da queste contrade discesero, fatto riconosciuto dagli antichi scrittori, ed invano da una smodata critica travolto, e negato: è di là che si commenta la primitiva divisione del popolo romano in Luceres ( etruschi ) Titienses ( Sabini ) e Ramnenses ( Latini), nomi co’ quali si designarono le genti condotte da Lucumone, da Tazio, e da Romulo. Volgendosi indietro, questa veduta viene temperata dalle orride selve, che vestono i monti sabini, e sotto apronsi spaventevoli precipizii verso i monti corniculani, che da quella sommità appariscono come leggiere colline, e picciole ondulazioni di terreno.

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