Gabii, Pantano, Castiglione

[t.2, pp.71-89]

Pantanus ago, Turris Castilionis

Dionisio Alicarnassèo lib. IV. c. LIII. determina la posizione di questa antica città latina in questi termini: eravi una città della stirpe latina, colonia degli Albani, distante da Roma 100 stadii, posta sulla via che conduce a Preneste, Gabii appellavanla. Lo stesso dichiara Strabone nel lib. V. c. III. ponendola circa 100. stadii distante da Roma, a mezza strada tra Roma e Preneste: ora 100 stadii sono eguali a 12 miglia e mezzo romane; e perciò l’Itinerario detto di Antonino, non contando mai le frazioni le assegna XII. m. di distanza da Roma; e fra Roma e Preneste la pone Appiano nel libro V. delle Guerre Civili. Laonde non è difficile rintracciarne la situazione, esistendo ancora Roma, Preneste e le traccie della via prenestina. Quindi concordemente si riconoscono come vestigia di questa città quelle che trovansi circa 12 miglia fuori di porta Maggiore ne’ tenimenti denominati di Castiglione e di Pantano. Inoltre se rimaner poteva ne’ tempi passati ombra di dubbio, questa venne dileguata pienamente dalle ricche scoperte che vi fece nel 1792. il principe Marcantonio Borghese che fornirono monumenti di ogni genere, che oggi formano uno degli ornamenti principali del museo di Parigi. Nulla può dirsi della etimologia del nome di questa città; non così della sua origine albana, poiché Dionisio nel passo riferito di sopra, Virgilio Aeneid. VI. v. 773. e Vittore nel capo XVII. della Origo Gentis Romanae lo affermano positivamente, e secondo questo ultimo scrittore fu dedotta da Alba la colonia di Gabii da Latino Silvio, quello stesso re, che secondo Livio lib. I. c. III. dedusse parecchie colonie. Divenne questa colonia, popolosa e grande quanto qualunque altra, siccome riferisce lo stesso Dionisio, il quale nel lib. I. mostra che era una specie di università per tutto il popolo latino, dove di soppiatto furono da Numitore mandati ad educare, ed apprendere la lingua greca ed il maneggio delle armi i suoi nipoti Romulo e Remo; fatto che viene confermato da Vittore nella opera sovraindicata. La sua dipendenza da Alba, a quella epoca, sembra come quella delle altre colonie dedotte da essa, essere stata più di formalità, che di fatto, poiché Numitore volendo salvare i nipoti non li avrebbe mandati in una città dipendente direttamente dagli ordini di Amulio, che bramava di metterli a morte. Dopo la fondazione di Roma dee credersi, che Romulo per gratitudine, Numa pel suo carattere tutto pacifico, e d’ altronde Alba sempre restava, tenessero buona armonia co’ Gabini. La rovina di Albalonga, metropoli di tutto il Lazio pose indirettamente Gabii in quella dipendenza da Roma, che avea da Alba, e forse i legami erano anche più larghi; né Anco Marcio, né il primo Tarquinio, né Servio ebbero brighe, col popolo di Gabii; ma il secondo de’ Tarquinii, ultimo re di Roma, che amava di conquistare tutto il, Lazio, e le contrade limitrofe, volle impossessarsi di questa città, che allora reggevasi a modo republicano-aristocratico, e prevedendo di non potere pervenire ai suo intento colla forza, vi pervenne coll’astuzia, servendosi per condurre la trama di Sesto suo figlio, siccome può leggersi nel passo allegato di Dionisio ed in Livio lib. I. c. LIII. dal quale rilevasi al c. LX. che dopo la caduta del governo monarchico in Roma, Sesto, che voleva, come nel regno suo ritirarsi a Gabii, fu ucciso da quelli che vollero vendicare le ingiurie passate, le sue estorsioni, e le sue stragi. E qui debbo osservare, che questo racconto di Livio, che è tanto naturale, è in aperta opposizione con quello di Dionisio, il quale nel lib. V. nomina i Gabini fra gli altri popoli, che presero le armi a favore de’ Tarquinii espulsi da Roma, e dice, che Sesto fu ucciso nella battaglia del Regillo. Qualunque di queste due tradizioni voglia seguirsi, egli è certo, che dopo quella battaglia, i Gabini rimasero sempre attaccati ai Romani, e la via di che si fa menzione ne’ tempi più antichi è appunto la via gabina, che si ricorda da Livio nel lib. II. c. XI. dove narra, i fatti della guerra di Porsenna. Come amici ed alleati de’ Romani, i Gabini videro devastare le loro campagne dagli Equi l’anno 292 di Roma, come afferma Livio nel libro III. c. VIII. e dai Prenestini l’anno 375, secondo lo stesso scrittore lib. VI. c. XXVII. Nella famosa lega latina dell’ anno 415 che finì col porre il Lazio sotto la dipendenza di Roma, mentre si nominano altri commuui, che vi parteciparono, Gabii non vi prese parte e rimase fedele agli impegni contratti con Roma. L’ anno 543. Annibale venendo contro Roma per la via latina, itagli a vuoto la spedizione di Tusculo, scese da Tusculo a Gabii: infra Tusculum dextrorsus Gabios descendit, dice Livio lib. XXVI. c. IX. e forse non solo attendossi intorno alla città, ma entrò in essa, poiché il passo di Livio sovraindicato è molto vago. Frai prodigii, che questo stesso storico nota, come avvenuti nel 578, indica pure il tempio di Apollo di Gabii, che fu fulminato insieme con parecchi edificii privati. L’ autore del trattato de Coloniis attribuito a Frontino mostra, che le fortificazioni di Gabii furono rialzate da Silla, ed i campi divisi fra’ soldati; è questo un forte indizio che la città seguisse, come Preneste il partito di Mario, e come quella andasse soggetta a fiere sciagure. Quella legge sillana, ricordata nel trattato sovraindicato, fu emanata l’ anno di Roma 673, ed è una delle tante fatte da quel dittatore che possono vedersi raccolte nell’Ordo Historiae Iuris Civilis del Martini §. XLIV. La prossimità a Roma e le guerre civili, che accompagnarono il discioglimento della republica ridussero lo stato di questa città ad un grado tale di abbattimento, che Cicerone nella orazione pro Plancio c. IX. la nomina con Labico, e Boville, come quella città, donde appena potevano per la scarsezza del popolo mandar deputati alle Ferie Latine onde partecipare della distribuzione della carne; ed in quel passo l’oratore romano l’appella municipio. Lucano parlando dei mali prodotti dalla guerra civile cesariana lib. VII. v. 391. esclama:

. . . . . . . tunc omne latinum.

Fabula nomen erit: Gabios, Veiosque, Coramque

Pulvere vix tectae poterunt monstrare ruinae.

Dionisio pochi anni dopo quella guerra fatale descrive nel libro IV. questa città come abitata soltanto in quelle parti, che toccavano la via prenestina, che attraversavala e dove erano albergati e che poteva aversi una idea della sua primitiva grandezza e dello splendore, osservando le rovine molteplici delle case, ed il recinto delle mura, il quale era ancora in piedi in gran parte: quindi Orazio nella epistola XI. del libro I. la descrive come un villaggio:

Scis Lebedos quid sit? Gabiis desertior atque

Fidenis vicus.

Così Properzio lib. IV. eleg. I. dice che Gabii era una città annichilita:
Et, qui nunc NULLI maxima turba Gabi.
L’ anno 712 di Roma, attesa la situazione intermedia di questa città fra Roma e Preneste, venne scelta per tenervi un abboccamento da Ottaviano, e da Lucio Antonio, che si era trincerato in Preneste; questo non solo non ebbe luogo, ma finì per la diffidenza reciproca in una rottura aperta, siccome narra Appiano nel libro quinto delle Guerre Civili. La lunga pace che godé l’Italia dopo il ristabilimento finale dell’ ordine pubblico sotto di Augusto, fece rifiorire molte città cadute in squallore, fralle quali fu Gabii, per cui una ragione più forte si aggiunse, quella cioè de bagni freddi, co’quali Antonio Musa ristabilì la vacillante salute di Augusto, e frai quali celebri particolarmente erano le acque di Chiusi e di Gabii, dicendo Orazio nella epistola XV.

mihi Baias
Musa supervacuas Antonius et tamen illi
Me facit invisum, gelida quum perluor unda
Per medium frigus. Sane murteta relinqui,
Dictaque cessantem nervis elidere morbum,
Sulphura contemni, vicus gemit; invidus aegris
Qui caput et renes supponere fontibus audent
C1usinis, Gabiosque petunt, et frigida rura.

E questa fama de’ bagni gabini continuava a tempi di Domiziano ancora a segno, che Giovenale nella satira VII. v. 3. dice de’poeti che erano poco applauditi, che tentavano:
Balneolum Gabiis, Romae conducere furnurn.
I monumenti scoperti nel 1792, come quelli antecedentemente venuti alla luce, sono tutti posteriori allo stabilimento dell’impero, come il frammento de’Fasti pubblicato da Fabretti ed allora affisso nelle pareti della chiesa diruta di S. Primitivo, riprodotto poi dal Marini nella opera degli Arvali p. 24. b. il quale contiene i consoli ordinarii e suffetti dall’ anno 2 all’ anno 6 della era volgare: quella di Lucio Antistio Vetere, pontefice, pretore, decemviro pe’ giudizii, e questore di Tiberio Cesare Augusto, oggi nel museo Vaticano: il frammento edito dal Fabretti sovrallodato Inscr. 743. il quale appartiene a Claudio: varie lapidi della epoca di Tito e Domiziano, che si veggono in villa Borghese, scoperte fino dal 1792. e da me illustrate ne’ Monumenti Scelti di quella villa p. 35. 44. 45. Molto però contribuì allo splendore di Gabii Adriano, il quale costruì l’ acquedotto di che rimangono ancora le vestigia, ed eresse la Curia Elia ricordata dalla celebre epigrafe di Domizia figlia di Corbulone. Dopo quella epoca frequenti memorie di Gabii si hanno ne’tempi di Antonino, e di Commodo nelle iscrizioni; ed i ritratti di Severo e Geta son prova del lustro del municipio nel primo periodo del secolo III. della era volgare.
Cominciò poscia a decadere a segno, che un passo di Anastasio nella vita di Silvestro I. indurrebbe a credere che a’ tempi di Costantino, cioè sul principio del secolo IV. fosse di già ridotta ad uno stato di Massa, o tenuta, che quel biografo appella Massa Gaba territorio Gabinensi, donata da Costantino al Battisterio Lateranense. Ma qui si affacciano gravissime difficoltà; poiché esistè pure, almeno ne’ bassi tempi, una terra di Gabi in Sabina, siccome ha provato il Galletti con una dissertazione erudita, scritta a tale uopo ed appoggiata a documenti che non ammettono eccezione: nelle carte de’ tempi bassi si scambia sovente il nome Sabinensis, o Savinensis in Gabinensis, o Gavinensis e vice versa, e perciò riman dubbio se Anastasio in quel passo abbia inteso di Gabi in Sabina, o di Gabii nel Lazio. Quanto a me io non posso credere, che sul principio del IV. secolo Gabii latina fosse affatto deserta: poiché mi sembra che la frequenza della via prenestina dovea porvi ostacolo. Inoltre pare, che non possa escludersi affatto la esistenza di un vescovo di Gabii, come di altre città intorno a Roma; ma fra questi vescovi stessi, raccolti dall’ Ughelli, dal Sarti, e dal Nicolai, ve ne sono certamente, che per l’ equivoco sovraindicato di Sabinensis e Gabinensis, appartengono alla Sabina e non a Gabii. La serie dell’ Ughelli ricorda Asterio vescovo nell’anno 465, Andrea nel 487, Mercurio nel 501 e 504, Martino nel 649, Martiniano o Marciano nel 721, Niceta nel 743, Gregorio, o Giorgio nell’ 826, Pietro nell’ 853 ed 861 e finalmente Leone nell’ 876. ed 879. Il Sarti de Episcopis Eugubinis p. 40 vi aggiunge un Pietro che viveva l’anno 1060. Ed il Nicolai nelle Dissertazioni inserite negli Atti dell’ Accademia Romana di Archeologia T. V. p. 49. ne ha scavato un altro di nome Teodoro da un’ istromento che si conserva nell’ Archivio Sublacense, del quale si ha copia nel codice vaticano 8054 fol. 27. Da ciò però che sono per mostrare più sotto, mi sembra chiaro, che, ammettendo come probabile, e quasi dimostrata la esistenza della sede vescovile di Gabii, la serie de’ vescovi gabini non possa prolungarsi più oltre del secolo VIII. onde quelli che dopo quella epoca si ascrivono a Gabii, più probabilmente debbonsi assegnare alla Sabina; e che come io credo che la esistenza della città si protraesse ben più oltre della era costantiniana, così fosse cessata dopo la metà del secolo ottavo. La traslazione dell’impero, l’assenza degl’ imperadori di occidente da Roma, le invasioni de’barbari, che finalmente estinsero l’impero occidentale l’anno 476, se furono fatali alla metropoli, maggiormente lo furono alle sue vicinanze. Più ancora queste ebbero a soffrire nel secolo susseguente per la guerra accanita che pose fine al regno de’Goti l’anno 553. e per le scorrerie de’Longobardi in quello che allora appellavasi Ducato Romano. Quindi l’anno 741 Gabii era ridotta allo stato di fondo, il quale insieme con altre terre attinenti, fu da Zaccaria dato in locazione ad un Cristoforo nobile romano, siccome si trae dal registro di Cencio Camerario riportato da Muratori nelle Antiq. Medii Aevi Tom. V. p. 837, documento, che mostra essere Gabii divenuto fin da quella epoca di dominio diretto della chiesa romana. Gli sconvolgimenti successivi de’secoli IX. e X. cangiarono, non si sa come, da affittuarii in proprietarii i nobili romani, investiti da Zaccaria del possesso di Gabii, poiché nel 1030 Giovanni di Giorgio e Buona mostransi come proprietarii del luogo, allorché fondarono il monastero de SS. Primitivo e Nicolao, come risulta dalla carta autentica di tal fondazione esistente nell’ archivio di s. Prassede e diretta a Lioto monaco, riportata dal Galletti nel Primicero Append. p. 268, carta nella quale enunciasi Gabii come affatto deserto, ma che ancora riteneva il nome: in locum qui vocatur Gabis, propeque lacu qui vocatur Burrano: e quella donazione fu accompagnata da una metà di molino ad acqua, mosso dal fiume Osa, o dall’emissario del lago, e dal diritto di tenere uno schifo, o barchetta, sandalum nello stesso lago. Sembra, che questo monastero non prosperasse, o forse mai non potesse formarsi in quel sito, poiché da un altro documento conservato pur nell’archivio di S. Prassede si ricava, che nell’anno 1060 Giovanni arcicanonico di S. Giovanni a porta Latina concedette in enfiteusi, col consenso de’suoi preti a Luca abbate di Grottaferrata, la chiesa di s. Primitivo con tutti gli arredi sacri e terre attinenti. Vedasi il Galletti p. 283. Nel 1148 però, insorta lite fra i preti di s. Giovanni a porta Latina, la chiesa di s. Prassede, ed i monaci di Grotta Ferrata, fu deciso che due terzi della chiesa di s. Primitivo colle loro attinenze appartenessero alle chiese di S. Giovanni a porta Latina, e di S. Prassede; ma nel documento, che riporta il Galletti di questo giudicato p. 304, non si fa più menzione di Gabii, nome che sembra essersi insensibilmente dimenticato nel secolo X. Nell’anno 1153 Nicolao abbate di Grottaferrata, in presenza di Anastasio papa III. diè in affitto perpetuo, e concesse ad Ubaldo cardinale del titolo di s. Prassede a favore di quella chiesa la terza parte di s. Primitivo con tutte le sue pertinenze, onde mentre insensibilmente estinguevasi il dominio de’ monaci di Grottaferrata ampliavasi quello della chiesa di S. Prassede sopra Gabii, ed il suo territorio: allora per la prima volta in luogo di S. Primitivo leggesi S. Primo, nome del santo titolare della chiesa. Veggasi Galletti p. 310. Erano pertanto i monaci di S. Prassede e per dominio e per locazione perpetua signori di due parti del tenimento di S. Primitivo, o Primo fin da quell’ anno, l’altra parte spettando a S. Giovanni a porta Latina; ma nell’anno 1186 Gerardo rettore di quella chiesa, col consenso di Biagio prete della medesima, e di Giovanni priore della basilica del Salvatore al Laterano, diè in affitto, pure perpetuo, quella parte restante, a Gualtiero priore e rettore della chiesa di S. Prassede ed a Domenico prete e canonico della medesima. Galletti p. 325. Allora la chiesa di S. Prassede era retta dai canonici regolari di S. Maria de Rheno, che la tennero dal 911 fino al 1191; tolta loro quella direzione da Celestino III. nel 1191 fu affidata al cardinale Siffredo Gaetani da Pisa, il quale la diè in cura l’anno 1198 ai monaci detti di Vallombrosa, che ancora la ritengono: e colla chiesa que’ monaci ebbero ancora i beni, che le spettavano, e quindi anche il tenimento di S. Primo. L’anno 1259 Pietro Capocci cardinale diacono di S. Giorgio in Velabro legò a S. Prassede cento libre per la Torre di Castiglione, e 5000 libre di rendita per compra di terre da non doversi mai alienare, perché ogni anno l’abbate ed i monaci di S. Prassede celebrassero un anniversario solenne a suffragio dell’anima sua. Di questo legato rimane memoria perenne in una lapide contemporanea esistente nel chiostro di S. Prassede: e da esso apprendiamo la epoca in che fu eretta la torre di Castiglione ancora esistente, sulle rovine dell’acropoli gabina, e l’ingrandimento delle possessioni del monastero in que’dintorni, che costituiscono la tenuta odierna di Castiglione. E intorno a quella torre formossi un villaggio di questo stesso nome, che Castrum Castellionis si disse, ricordato da Bonifacio VIII. nella bolla del 1301, fatta a favore de’monaci vallombrosani, il quale, come pertinente alla chiesa di S. Prassede, castrum S. Praxedis ancora si disse, come dalla bolla medesima apparisce, esistente nell’archivio vaticano e pubblicata dal chiarissimo Fea nella memoria intitolata Discussione ec. sulla città di Gabio e suo lago, l’anno 1824. E siccome, dopo la fondazione della chiesa di S. Primitivo, il tenimento a quella spettante avea fatto dimenticare insensibilmente il nome di Gabii, così quella del Castrum Castellionis fece andare in obblio quello di S. Primitivo, onde assunse il nome, che ancora ritiene di tenuta di Castiglione.
Si fa menzione di questo castro in una bolla di Giovanni XXII. del 1322. dalla quale apparisce che era stato occupato dal prefetto di Roma in grave praeiudicium sedis apostolicae: e nella vita del celebre Cola di Rienzo lib. IV. c. XX, dove si narra come nell’anno 1353 il tribuno mosse la oste contra i Colonnesi di Palestrina, e partendo da Tivoli accampossi a Castiglione di S. Prassede, e di là il giorno seguente si mosse contro Palestrina. Un documento riportato dal Petrini nelle Memorie Prenestine p. 436. mostra che nel 1401 Bonifacio IX. ordinò la demolizione di una parte della torre di Castiglione, che è forse quella che manca, come pure in duella circostanza venne smantellato il castello, e ridotto Castiglione allo stato di casale. Il tenimento di Castiglione rimase in proprietà de’ monaci di S. Prassede fino all’anno 1527, allorchè venne compreso nella vendita de’fondi ecclesiastici per pagare i 400 mila scudi d’oro, promessi da Clemente VII. alle orde di Carlo V. onde essere liberato dall’assedio. In tal frangente Castiglione fu venduto a Luigi Gaddi per 7500 scudi, come apparisce da una nota esistente nella biblioteca chigiana, Mss. G. III. 58. fatta estrarre per ordine di Alessandro VII. dagli archivii camerali: ed in quella nota viene indicato, non più come castrum, ma come casale. Dai Gaddi il casale di Castiglione colla tenuta annessa venne in potere degli Odescalchi, e da questi passò agli Azzolini di Fermo, che l’hanno posseduto fino al 1822, in che fu venduto ai Meneacci, che di recente lo hanno venduto ai Borghese.
A Gabii si và da Roma, tanto per l’antica via gabina, detta pur prenestina, e modernamente di Tor Tre Teste e dell’Osa, quanto per la labicana oggi di Torre Nuova e della Colonna. La gabina è la più diretta e la più breve, ma di poco varia la distanza, essendo la differenza di circa 1 miglio: andandovi per la labicana si lascia questa alla osteria del Finocchio, e volgendo a sinistra, entrasi in una strada rurale, che è parte dell’antico diverticolo, che legava le vie collatina, gabina, labicana e tusculana: un miglio dopo, si passa dinanzi una torre semidiruta del secolo XII. che ha il nome di S. Antonio ed 1 altro miglio dopo raggiungesi la via gabina circa al X miglio da Roma, di sotto ed a lato della osteria detta dell’Osa, perché situata sulla sponda sinistra di quel fiume: questo ivi traversasi sopra il ponte, che ricorda quello delle SS. Degna e Merita indicato nella bolla di Gregorio VII. riferita dal Margarini e pertinente all’anno 1074, così denominato per qualche chiesa, o cappella ivi dappresso esistente e consacrata ai meriti di quelle due sante martiri.
Al Ponte dell’Osa la via gabina o prenestina torce a destra: a sinistra poi si distacca la strada moderna di Poli che raggiunge il tramite antico di communicazione fralla via collatina e la tiburtina, andando a sboccare presso il ponte Lucano. La via gabina pertanto volgendo a destra conserva traccie molto patenti dell’antico lastricato di poligoni di lava, ed è incassata nel masso della pietra dagli antichi designata col nome di lapis gabinus. Nel percorrere lo spazio fralla osteria della Osa e le rovine di Gabii, è singolare fenomeno il rimbombo assai forte, che si ode sotterra: ora Plinio Hist. Nat. lib. II. c. XC1V. §. XCVI. nota, che quaedam vero terrae ad gressus tremunt, sicut in gabinensi agro non procul urbe Roma iugera ferme ducenta equitantium cursu: indizio della esistenza di vuoti profondi che in questa parte il suolo eminentemente vulcanico racchiude. La strada passa dinanzi la osteria di Pantano, e quindi traversa l’emissario del lago: dopo passa dinanzi un tumulo sepolcrale che lascia a destra, e finalmente entra in Gabii.
Dall’aspetto del suolo si riconosce, che la città antica copriva tutta la striscia che domina da una parte il lago, e dall’altra il tenimento di Pantano: che era di forma molto allungata, in modo che, mentre presenta il circuito di circa 3 miglia, difficilmente avea nella maggiore ampiezza un mezzo miglio di diametro. E parmi che i limiti della lunghezza si possano determinare dal tumulo sovraindicato, che rimaneva fuori, fino ai dintorni della torre di Castiglione. E siccome questa torre è appunto nel sito più culminante di tutta la contrada, perciò io credo, che ivi fosse la cittadella antica, e che ivi la colonia primitiva di Latino Silvio ponesse i suoi alloggiamenti. Di là successivamente si andò allungando sul ciglio del lago, assumendo così una forma ed una posizione strettamente analoga a quella della metropoli Albalunga, cioè lunga e sul ciglio di un lago.
Il primo avanza dell’antica città, e che è visibile in tutta questa pianura del Lazio, è quello del tempio di Giunone Gabina, così bene accennato da Virgilio in que’ versi del libro VII. della Eneide:

quique arva gabinae

Iunonis, gelidumque Anienem, et roscida rivis

Hernica saxa colunt, quos dives Anagnia pascit.

Il tempio, come i più antichi del Lazio era rivolto verso sud-ovest: la cella è sufficientemente conservata, meno il tetto, che manca, ed il lato meridionale che è il più diroccato. Questo tempio come quello di Diana Aricina, col quale ha una grande analogia per la forma e per la costruzione, avea colonne nella fronte e ne’fianchi, ma non nella parte posteriore, dove il muro della cella dilatandosi a destra e sinistra chiudeva il portico laterale. I muri della cella sono di massi bene squadrati, e perfettamente commessi, di pietra locale, o gabina, grossi ciascuno circa 2 piedi, larghi altrettanto, lunghi circa 4: questi massi sono disposti, ora in lungo, ora in largo, ma non regolarmente, e per conseguenza credo, che la costruzione possa ascriversi circa al secolo V. di Roma. L’interno della cella ha 45 piedi di lunghezza e 27 e mezzo di larghezza; in fondo rimangono le vestigia del sacrario, il quale veniva chiuso da cancelli fissi, di che veggonsi sul suolo le impronte: o questa cancellata era interrotta in tre luoghi ad egual distanza, dove sembra che fossero specie di porte cancellate, che siccome apparisse dal battente e dalle traccie de cancelli fissi aprivansi indentro. II sacrario ha 6 piedi di profondità. II pavimento della cella è di musaico bianco composto di tasselli grossi ciascuno circa una mezza oncia: è però da osservarsi che nel sacrario tal pavimento non si ravvisa, se non nel recesso sopra cui era la statua di Giunone Gabina, ed è questo un indizio patente, che quel recesso dovea servire a contenere oggetti sacri e preziosi, come in altri templi della antichità. La soglia del sacrario ha circa 2 oncie di altezza. Le parti della cella più conservate, a partire dal pavimento interno di musaico sono circa 25 piedi alte, ma non conservano in alcun luogo l’altezza primitiva. Il vano della porta è di 8 piedi di larghezza: La parte postica della cella è ornata esternamente da una specie di basamento, o podio con modinature, alto 5 piedi e 4 digiti, tutto compreso. Le ale, che partono dal muro posteriore della cella hanno da ciascuna parte 5 piedi e tre quarti di larghezza e servono a determinare la larghezza de’peristilii laterali del tempio. Delle colonne che circondavano per tre lati la cella, non rimangono che pochi frantumi sul luogo, dai quali si conosce che erano di pietra gabina, scanalate, con listelli larghi 1 oncia e mezza, e per conseguenza di ordine ionico, e non dorico ( come erroneamente asserì l’illustratore de’monumenti gabini borghesiani ) e che erano rivestiti di stucco. Dagli avanzi esistenti del tempio, pure apparisse, che innalzavasi in mezzo ad un area, la quale di fianco avea 54 piedi di larghezza, e di fronte soltanto 8, poiché ivi addossato ai gradini del tempio era il teatro, di che si veggono ancora le traccie informi, come nel recinto di fianco appariscono chiare vestigia delle camere, che servivano ai sacerdoti, le quali sono ancor più visibili lungo il lato orientale.
Del foro scoperto l’anno 1792. non rimangono più vestigia, e solo può dirsi, dalla pianta pubblicata dall’ illustratore de’ monumenti gabino – borghesiani, che era quadrilatero, e che verso la estremità meridionale veniva attraversato dalla via prenestina: secondo quell’illustratore era circondato da un portico sostenuto da colonne di ordine dorico, meno verso la via prenestina, dove aprivasi: e quel portico entrava nella categoria degli areostili: e dietro quel portico erano camere ed edificii; e come quelle poterono servire di taberne, o botteghe, fra gli edificii si credette alla epoca della scoperta di avere riconosciuto la curia, e l’augustèo, o tempio sacro agl’imperadori. Nel centro dell’area del foro fu la statua di Tito Flavio Eliano protettore del municipio, siccome apparve del piedestallo scoperto colla iscrizione onoraria al suo posto.
Dal tempio di Giunone Gabina, seguendo per un tratto l’andamento della via prenestina verso oriente, veggonsi nel tenimento di Pantano gli avanzi dell’acquedotto che Adriano costrusse, onde la città potesse avere acque perenni e pure: della quale opera di Adriano è un documento la iscrizione frammentata riferita dall’autore, che spiegò i monumenti gabini, p. 14. e la costruzione di reticolato e laterizio, sebbene sdrucita, fa riconoscere que’ ruderi, come contemporanei di quelli della villa Adriana.
Ritornando alcun poco indietro, e prendendo il sentiero che guida a Castiglione, veggonsi a destra ne’ campi ruderi, che anche da lontano, mostrano appartenere ad una chiesa de’ tempi bassi: questi appartengono alla chiesa de’ ss. Niccolò, e Primitivo, o s. Primo: sono privi affatto di tetto: e presso l’ingresso si riconosce ancora il campanile diroccato; la tribuna conserva traccie delle pitture, che rappresentavano varii santi, frai quali ancora ravvisasi s. Niccolò, uno de’ protettori: la costruzione de’muri è del secolo XI e si compone di ogni sorta di frantumi, consolidati di tratto in tratto, ma irregolarmente con pezzi di opera laterizia.
Dalla chiesa rovinata di s. Primitivo, andando a Castiglione, il sentiero siegue una specie d’istmo, che a destra ha una seria continuata di latomie a strato aperto, le quali fornirono le pietre, prima per Gabii, e poscia ancora per Roma: a sinistra poi, segue l’andamento del cratere dirupato del lago. Castiglione conserva ancora le vestigia del recinto de’ tempi bassi, e la torre diroccata insieme con quello fino dal 1401. Notai di sopra, che questo castello sorse nel secolo XIII. quando le terre appartenevano ai monaci di S. Prassede, e che vi contribuì il cardinale Capoccio: le mura di questo castro evidentemente vennero costrutte co’ massi delle antiche, ed in parte furono anche fondate sopra le antiche stesse, delle quali fortunatamente rimane un angolo verso nord-ovest di circa 5 o 6 strati di pietre quadrilatere, che essendo di costruzione analoga a quella delle sostruzioni del Tabulario, d’ uopo è conchiudere, che appartengano alla epoca di Silla, che secondo Frontino allegato di sopra, rialzò le fortificazioni di Gabii. Il cratere del lago, essendo da questa parte tagliato a picco, indica evidentemente il giro della mura, che cingevano l’acropoli gabina. Da Castiglione per la strada di Poli, si raggiunge il ponte dell’Osa, e la via gabina: in questa parte a destra continuano per un certo tratto le latomie indicate di sopra.
La pietra gabina, tanto impiegata nelle fabbriche di Roma, e di che specialmente sono costrutte le sostruzioni e le parti interne del Tabulario, è una specie di peperino di color bigio bruno, che esposto all’ aria assume un tuono più pallido del peperino ordinario, o sia della pietra albana; essa resiste al fuoco, ed è un composto di ceneri vulcaniche miste a frantumi piccioli di lava nera, bruna, e rossastra, con frammenti di anfigeni e pirosseni, squammette di mica, e pezzi di calcaria appennina.
Dal registro di Cencio Camerario più volte ricordato apparisce, che Gabii, ed il suo territorio più vicino nel primo periodo del secolo VIII. costituiva la Massa Galli, o Massa Gallorum, composta de’ fondi denominati allora Digitorum, Gabii, Metiortum, Barbulianum, o Sentianum, Lucretianum, detto pure Musta, Lampadiorum, o Formellus, Flavianum, ovvero Casa Monachorum, Medianum, Formicis ( forse Fornices per l’arcuazione dell’ acquedotto ) Aurefilis, e Marcianum. La contrada in che erano appellavasi Bursano, che io credo per errore del trascrittore così scritto in luogo di Burrano, che conservò il lago per varii secoli prima che venisse in potere de’ monaci di S. Prassede, siccome vedrassi nell’ articolo seguente. E tutti questi fondi diconsi posti territorio gabinate ex corpore portrimonii labicani. Oggi la città di Gabii, e le sue più immediate attinenze costituiscono i tenimenti di Castiglione e di Pantano, ambedue proprietà de’ Borghese. Castiglione, che come ho notato di sopra appartenne in ultimo luogo ai Mencacci comprende 270. rubbia di terra, divise ne’ quarti denominati di S. Primo, della Osteria degli Albucci, e di Corsano. Quanto al tenimento di Pantano, si fa menzione di un Pantano de Azo in questa contrada fino dall’ anno 1030. della era volgare nella carta dell’ archivio di S. Prassede ricordata di sopra: ma quello era più verso il Teverone, come dalla stessa carta apparisce, onde io credo, che quello sia Pantan di Guazzo indicato nella carta di Ameti e posto nella tenuta di Corcolle, presso il confine di Lunghezzina al confluente del fosso di S. Cesario nell’ Aniene, pantano, oggi disseccato.
Ma certamente, di questo tenimento, che anche oggi ha il nome di Pantano fa menzione nel 1353 l’autore della vita di Cola di Rienzo e lo designa come una selva posta fra Tivoli e Palestrina presso Castiglione, dove i Colonnesi nascosero la preda fatta, che trasportarono poi chetamente a Palestrina, centro allora della loro potenza. E questo tenimento fu venduto dai Colonnesi al card. Scipione Borghese nel primo periodo del secolo XVII. Vastissima é questa tenuta, che entra ne’ territorii di Monte Porzio, e di Monte Compatri in modo che dal Cingolani si calcola a rubbia 1525 e 2 scorzi; ma la parte inclusa entro i limiti dell’ Agro Romano dal Nicolai si restringe ad 840 rubbia, 1. scorzo e 2 qu. Essa dividesi nella parte compresa nell’ agro romano in quarto dell’ Incastro, Pedica di Rocca Cenci; quarto della Casetta di Campotosto, Pedica di Tor Carbone, Pedica di Ponte Nono, quarto di Torre Iacova, quarti di Finocchio, Piscare, Valle S. Elmo, Tor Forame, Padiglione, Padiglioncino, la Pedichetta, Pescara, Pedica delle Grotte, S. Antonio, la Pelosetta, e Pedica delle Cappelle; nomi che non hanno alcuna relazione né cogli antichi, né con quelli ricordati di sopra, pertinenti al secolo VIII.

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