CORA – CORI

[t. 1, pp. 495-520]

È una città posta nel paese de’ Volsci, inclusa oggi nella legazione di Velletri, la quale, secondo la statistica più recente racchiude 4058. abitanti. Essa nello spirituale dipende dal vescovo di Velletri: nel temporale poi è feudo del senato e popolo romano, che lo possiede fino dal secolo XIV. è ad oriente di Roma, donde dista per la strada di Velletri che è la più diretta, circe 37. miglia: da Velletri poi 12, da Segni 8, e da Cisterna 10.

Plinio Hist. Nat. lib. III. c. V. §. IX. afferma che i Corani derivarono da Dardano trojano: Solino c. VIII. dice che Cora fu fondata da Dardano, nome cangiato dai copisti in Dardanis: Servio però commentando il verso 672. del settimo dell’Eneide sembra crederla fondata da Coras fratello di Tiburto figli di Catillo seniore che gli dice ammiraglio, che condusse Evandro in Italia. Quantunque l’autorità de’ due primi scrittori sovralodati sembri doversi preferire a quella di uno scoliaste tanto alterato dai trascrittori ne’ tempi bassi, quale è Servio, nulladimeno, volendo anche anteporlo, ne emerge sempre un fatto incontrastabile, che Cora dagli antichi veniva riguardata come città antichissima, e questo fatto vien confermato dalle imponenti rovine delle mura sue primitive, che possono, siccome vedremo, gareggiare con quelle di Micene, e di Tirinto.

Stando pertanto alla tradizione seguita da Plinio e da Solino, la sua fondazione rimonta alla venuta de’ secondi Pelasgi in queste contrade, cioè, secondo i calcoli di Petit Radel Examen Analytique all’anno 1470. avanti la era volgare, ossia 716. prima della fondazione di Roma e 70. prima di quella di Ardea fatta da Danae: l’anno medesimo che si assegna per la fondazione di Cosa e di Saturnia. Ora Tirinto fu edificata per Preto dai Ciclopi l’anno 1379. avanti l’era volgare, e Micene da Perseo l’anno 1300; quindi Cora è non solo una delle più antiche città d’Italia, ma una delle più antiche del mondo. Se poi vuol starsi a quella di Servio, la quale, però, strettamente parlando, non dichiara Cora fabbricata da Coras, ma così denominata da lui, essendo di una generazione posteriore ad Evandro rimonterebbe la sua fondazione all’anno 1230. circa innanzi la era volgare secondo il calcolo commune. Come in molte città più antiche del Lazio, anche in Cora mandò Latino Silvio una colonia albana, e su questo punto vanno d’accordo l’autore della Origo Gentis Romanae, Livio lib. II. c. XVI. Dionisio lib. III. c. XXXIV. e Virgilio lib. VI. v. 773. nella predizione di Anchise ad Enea:

Hi tibi Nomentum, Gabios, urbemque Fidenam,

Hi collatinasimponent montibus arces

Laude pudicitiae celebres, addentque superbos

Pometios, Castrumque Invi, Bolamque, Coramque.

Così rimase Cora stretta nella lega latino-albana fino alla distruzione di Alba Longa fatta da Tullo Ostilio l’anno 665. avanti la era volgare. Allora Tullo mosse le pretensioni di essere riconosciuto, come capo della lega nella stessa guisa, che i Latini aveano fino allora riconosciuto i re ed i dittatori di Alba. Ma i Latini vi si opposero, e convocata la dieta nazionale al luco di Ferentina decretarono di non sottomettersi ai Romani, e crearono capi della lega col diritto di fare la pace e la guerra Anco Publicio da Cora, e Spurio Vecilio da Lavinio. Veggasi Dionisio al luogo notato. Si fece però ben presto un’accommodamento, così che quella scissura altri fatti non presenta se non la presa di Medullia, città che era stata già conquistata da Romulo. Merita però una osservazione la scelta che fecero i collegati di corano per loro duce, poiché mostra che a quella epoca Cora distinguevasi per potenza e per impegno.

Questa città non presenta altri fatti fino alla espulsione de’ re di Roma; allora però i tre popoli vicini a Roma, che tanto aveano contribuito alla sua fondazione, i Latini, cioè, i Sabini, cogli (pag. 497) Etrusci si misero in moto pe ristabilire in Roma i Tarquinii, e la forma monarchica del governo. I primi a muoversi, come è ben noto, furono gli Etrusci guidati da Porsena, guerra che venne illustrata dai fatti eroici di Orazio Coclite, Muzio Scevola, e Clelia, e che terminò con una pace onorevole al dire di Livio, men che onorevole, secondo Plinio ed altri antichi scrittori, ma che dopo la sconfitta avuta dagli Etrusci presso le mura di Aricia divenne onorevolissima e congios si poco meno che in un’alleanza. Alla guerra etrusca tenne dietro quella de’ Sabini che vennero compiutamente disfatti dai consoli M. Valerio e P. Postumio l’anno di Roma 251. e nell’anno seguente dai consoli P. Valerio e Tito Lucrezio: Livio lib. II. c. XVI. Ma nell’anno 253. lo stesso storico narra, che le due colonie latine di Pomezia e Cora disertarono agli Aurunci. Laonde i consoli Menenio Agrippa e Publio Postumio vennero con la loro giornata, e malgrado una resistenza feroce li vinsero; ridotta tutta la guerra a Pomezia venne questa città assediata, e nell’anno seguente fu presa e smantellata. Nulla in quella occasione si dice di Cora, la quale sembra che allora evitasse il risentimento de’ Romani per la mossa generale de’ Latini, che terminò colla battaglia del lago Regillo. In quella guerra sociale entrarono anche i Corani per testimonianza per testimonianza di Dionisio lib. V., ma gli ajuti de’ Corani, come quelli de’ Volsci che erano entrati nella stessa lega non giunsero in tempo; laonde si conchiuse con loro un trattato dai Romani, pel quale i Volsci diedero 300. Ostaggi scelti frai figli de’ principali abitanti di Cora e Pomezia: obsides, dice Livio lib. II. c. XXII. dant (pag. 498) CCC principum a Cora atque Pometia liberos. Di Cora lo stesso storico null’altro dice; ma siccome narra le nuove mosse fatte dai Volsci poco dopo contra Roma, e la presa e saccheggio di Pomezia, io credo, che a quella epoca debba riferirsi la notizia conservataci da Properzio lib. IV. el. II. della presa di Cora, e della multa di una parte del territorio, ed a quella epoca stessa per conseguenza vi fu dedotta una colonia, cioè circa l’anno 260 di Roma.

Necdum ultra Tiberim belli sonus: ultima praeda

Nomentum et captae iugera pauca Corae.

E come colonia romana si mostra ancora al tempo della guerra annibalica, quando, secondo Silio, i Corani mandarono il contingente, prima della battaglia data sul Trebia lib. IV. v. 220. e prima di quella di Canne lib. VIII. v. 377. In quella stessa guerra Livio lib. XXVI. C. VIII. ricorda come nella scorreria che fece Annibale contra Roma il proconsole Q. Fulvio, che a marcia forzata venne a soccorso di Roma mandò innanzi avvisi ai municipii che erano lungo la via appia per la quale veniva, affinché preparassero i viveri e per loro, e per l’esercito che passava, raccogliessero i presidii nelle città rispettive, e si difendessero colle proprie forze. Ora fra que’ municipii lo storico nomina particolarmente Setiam, CORAM, Lanuvium. Questo fatto appartiene all’anno di Roma 543. Cora intanto era rimasta molto estenuata in quella guerra, così che trovasi l’anno 545. enumerata da Livio fralle dodici colonie che dichiararono non avere più mezzi da fornire uomini o denari: Livio lib. XXVII. c. VIII. questa dichiarazione dopo la vittoria riportata dai Romani sul Metauro valse a Cora, come alle altre colonie la pena imposta dal senato romano l’anno 550. di dare il doppio del MAXIMUM de’ soldati, che durante la guerra aveano fornito: aggiungervi 120. cavalieri, o 3. fanti per ogni cavaliere che non avessero potuto dare: e pagare 1000. assi ogni anno di bronzo massimo: Livio lib. XXIX. C. XV. Alcuno potrebbe credere esservi in Livio una contraddizione, poiché di sopra ha posto Cora fra i municipii che erano lungo la via appia: qui la pone fralle colonie renitenti: ed è noto essere ben diversa la condizione delle colonie da quella de’ municipii. A me sembra potersi risolvere questa contraddizione apparente con distinguere, che dove nomina Cora frai municipii dell’Appia parla di essa nello stato i che trovavasi ai tempi suoi: dove poi tratta della rimostranza, e della multa, riguarda Cora nello stato in che trovavasi a quel tempo, così che può dedursi da questa apparente contraddizione medesima che Cora a’ tampi di Annibale, cioè l’anno 543. era colonia, ed a’ tempi di Augusto, quando Livio fioriva era divenuta già un municipio. Questo cangiamento di stato avvenne probabilmente dopo la catastrofe che ebbe a soffrire nella guerra mariana. Imperciocchè apprendiamo dalla Epitome di Livio lib. LXXX. Da Plutarco in Mario c. LXXI, da Orosio l. V. c. XIX, e da Appiano l. I. delle Guerre Civili, che Cora, Lanuvio, Aricia, ed Anzio come altre colonie che aveano seguito il partito sillano si videro esposte alle devastazioni delle genti di Mario, a tal segno che Lucano Phars. lib. VII. v. 392. la mostra coperda di ruine:

Gabios, Veiosque, Coramque

Pulvere vix tectae poterunt monstrare ruinae.

Da queste rovine la fece risorgere Silla, poiché molti avanzi presenta Cora, siccome vedremo, che a quella epoca appartengono e fra questi specialmente io voglio notare i due rempli, quello di Castore e Polluce, e quello detto di Ercole, le grandi cistenre, e varii tratti delle mura, ne’ quali si ravvisa la stessa costruzione di opera incerta, e lo stesso stile di architettura che nelle parti del tempio della Fortuna Prenestina edificate da lui.

Se un passo di Floro lib. III. c. XXI. non è erroneo, parmi certo che Cora andasse soggetta alle devastazioni delle masnade di Spartaco; ma a dire il vero io dubito molto che in luogo di Coram ivi non si abbia da leggere un qualche altro nome pertinente a qualche città della Campania, provincia che unitamente ad altre della Italia meridionale fu messa a soqquadro da quelle orde. Strabone lib. V. c. III. §. 10, e Plinio l. n. sono gli ultimi scrittori antichi che ce la mostrino esistente ai giorni nostri, giacché i passi di Silio di riferiscono, come si vide ad una epoca molto anteriore a quella, nella quale scrivea. Di lapidi posteriori, o contemporanee alla epoca degli scritti testé ricordati tale scarsezza abbiamo, che appena una riguardante specificatamente Cora, se ne conosce, ed è la seguente, che è incassata nel muro sotto il campanile di s. Maria:

                                TI . CL . TI . FILIO

                                           FVsco

                                 OMNIBVS . HONOr

                                   CORAE . FVNC

                           TO . ORDO . ET . POPVL

                       CORA . . . . . . BENEMERITA

                                            EIVS

Questa, siccome è chiaro appartiene ad un qualche discendente di liberto di Claudio imperadore, benemerito della colonia, e per lo stile e la forma delle lettere non la credo posteriore al primo secolo della era volgare. Essa però è una prova che Cora era allora municipio, nominandosi il senato e popolo corano, come pure lo prova quella più antica muratoriana riportata alla pag. CCCCLXXXI.

Egli è pur singolare, che pochi frammenti ho osservato in questa città, che appartengano al secondo e terzo secolo, e niuna costruzione, in guisa che dubito molto, che anche prima della caduta dell’impero occidentale questa città non rimanesse deserta. Alto silenzio se ne ha negli scrittori de’ tempi bassi e ne’ documenti fino a tutto il secolo duodecimo. Dall’altro canto il fabbricato esistente, che non è, o antico anteriore ad Augusto, o moderno, è in massa di opera saracinesca del secolo XIII. Quindi mi sembra, che possa stabilirsi, che appunto in quel secolo, probabilmente per opera de’ conti di Segni si stabilisce di nuovo un castello sulle ruine della città antica, profittando appunto di quelle per fondamento. E questo castello riprese il nome primitivo, che ancora conserva. Infatti da quella epoca in poi cominciamo ad incontrare memorie; imperciocchè Innocenzio III, papa di quella famiglia, siccome si ha dalla raccolta delle sue lettere pubblicata dal Baluzio Tom. II. p. 545. Costituì l’anno 1212. signore e rettore di Cora, testé riedificata, Pietro Annibaldi, finché fosse piaciuto al papa, indicando e confermando così la dipendenza diretta. E Gregorio IX. nel 1234. nella bolla data affine d’impedire l’alienazione de’ luoghi dipendenti dalla camera apostolica nomina particolarmente Cora: ora Gregorio IX. era anche esso de’ Conti di Segni, e nipote di papa Innocenzio. Nulla si conosce delle vicende di questa città dopo quella epoca fino al secolo XV. In questo lungo intervallo Cora passò direttamente sotto il dominio del popolo romano, poiché fino dall’anno 1404, come Terra dipendente dal senato e popolo romano viene compresa nella pace fatta frai conservatori e Paolo figlio di Francesco Orsini; e questo dominio fu confermato con breve di Pio II. nel 1458. Da quella epoca meno piccole oscillazioni è sempre rimasto feudo del senato e popolo romano. Nel Diario di Gentile Delfini inserito dal Muratori ne’ Rerum Ital. Scr. T. III. p. II. p. 846. si riferisce avere il re Ladislao ordinata la roccatura di Tivoli, Velletri, CORA ed altre terre, e che vi pose i castellani; sebbene l’anno positivo manchi, questo fatto appartiene al 1408: per roccatura intende la merlatura e fortificazioni in genere, e di questo ristauro delle mura corane ne sono evidenti le prove que’ pezzi che scorgonsi opere appunto del secolo XV.

Poche città comprese dentro i limiti della mappa possono vantare tanti monumenti antichi e così importanti, quanti ne conserva questa, e perciò meritano una descrizione più distinta. Ho notato di sopra che da Velletri a Cora sono circa 12. miglia: la strada fino a questi ultimi anni non era affatto carreggiabile; ma oggi è una bella via amenissima, e commoda ad ogni sorta di carri. Quasi a mezza via si lascia a sinistra il cratere del lago testé diseccato di Giuliano, ed a destra poco dopo il villaggio stesso di Giuliano v. GIULIANO; al nono miglio da Velletri si passa sotto il picco di Rocca Massima, forse l’Arx Carventana degli antichi v. ROCCA MASSIMA, e poco dopo comincia la salita di Cora che dura quasi 3. miglia ma che è così agiata da potervi andare di trotto: essa è tracciata entro l’oliveto, ed ha a destra una magnifica veduta della pianura de’ Volsci, e de’ loro campi pontini.

La città che fino a Giuliano si ha sempre dirimpetto, nascondesi dopo dietro la falda del monte sulla quale la salita moderna fu aperta, e non si torna a vedere se non nel punto in che si trova immediatamente prossima. Poco prima di entrarvi vedesi dominare a sinistra la chiesa e convento di s. Francesco, alla quale conduceva un bel viale, che serve di passeggiata ai Corani: la contrada in che vennero edificati sì l’una che l’altro portò ne’ tempi andati il nome di Serrone. Il Casimiro nelle Memorie Storiche de’ Conventi della Provincia Romana o. 90. dà la storia di questo, come degli altri, e da essa risulta che fino dalla metà del secolo XV. il commune di Cora domandò a papa Niccolò V. il permesso di edificare un convento pe’ pp. minori osservanti, dove già esisteva un monastero di agostiniane, allora abbandonato e in rovina, annesso ad una chiesa dedicata a s. Margherita. Il papa ne commise la cura a Niccolò di Lorenzo arciprete della collegiata con breve dato ai 20. di aprile 1451. Questo provvedimento non ebbe alcun risultato, onde nell’anno 1511. ai 27. di giugno il cardinal Raffaelle Riario, allora decano, e camerlengo, concedette ai frati minori la chiesuola di s. Giovanni Battista, esistente in questo luogo. Si diè tosto principio al lavoro; nel 1516. la chiesuola era stata di già occupata: essa stava in quella aprte della chiesa attuale di s. Francesco, dove si vede il coro, e presbiterio. I cittadini contribuirono larghe somme per ultimare la fabbrica della chiesa e del convento: e per quest’ultimo Clemente VII. emanò nel 1521. il breve opportuno. La fabbrica però non fu compiuta che nell’anno 1628. Nel 1676. Venne terminato il soffitto della chiesa con intagli e doratura, come oggi si vede da Luigi Guarnieri. Finalmente ai 4. di giugno 1686. fu solennemente consacrata la chiesa da Antonio Marinari carmelitano, vescovo in partibus, suffraganeo di Veleltri. La chiesa non presenta alcun oggetto, degno di osservazione; il refettorio però nel convento è adorno di belli intagli il legno: sopra i capitelli de’ pilastrini che girano intorno fr. Vincenzo da Bassiano scolpì con poco gusto, ma con molta pazienza e fatica in basso rilievo i fasti di s. Francesco. Il vasto oliveto, che è a destra, uscendo dall chiesa ha il nome d’Insito, ed in esso, presso la strada da Cora a Cisterna vedesi un piccolo edificio rotondo de’ tempi bassi ed una chiesuola dedicata all’Annunziata sulla strada medesima. Questa appartiene al secolo XVI, e sulla porta arcuata il lettere di forma gotica si legge la epigrafe seguente:

DE · SPAGNIA · FUIT · QUI · ME · LEGERIT · DICAT·

UNŪ · PATER · NR · P · AIA · MEA (pag. 504)

di fianco a questa è uno stemma dello stesso tempo con nn leone rampante. Questa chiesuola conserva pitture rappresentanti storie del vecchio testamento, opera del secolo XIV. Buono, e diligente è il contorno, la espressione ed il colorito imitano bene la natura, ma le figure riescono grette, e la mossa è stentata.

La città siede appoggiata ad un contrafforte del monte Lepino, è rivolta a sud-ovest, e diminuendo in larghezza costantemente da piedi alla cima, presenta un aspetto piramidale, di cui il tempio detto di Ercole, forma la punta. Due torrenti profondi ed imboschiti, che si uniscono insieme sotto l’angolo occidnetale di essa, ne’ tempi antichi doveano farla assai forte: il più occidentale di questi raccoglie lo scolo della città superiore, ed è meno considerabile: l’orientale è molto più profondo e terribile, e discende dal dorso del monte detto della Croce. Questi due torrenti dopo il confluente assumono il nome di fosso de’ Picchioni, che va a scaricarsi nel Teppia, il più indomito, e devastatore di quanti scendono ne’ campi pontini. Tra la parte superiore, e la parte bassa della città si frappone un oliveto, che attesa la natura del luogo vi dové sempre esistere: la parte alta, che costituiva l’antica cittadella, o acropoli ha oggi il nome di Cora a monte: la parte bassa che fu l’antica città propriamente detta, quella di Cora a valle.

Volpi nel suo Lazio T. IV. p. 128. afferma non rimanere vestigia delle mura antiche di Cora, ma solo di quelle del tempo de’ Goti, prendendo per gotiche nientemeno che le imponenti costruzioni a poliedri comunemente dette ciclopèe o pelasgiche. Le traccie superstiti de’ recinti antichi portano evidentemente la impronta di quattro epoche diverse: la più antica presenta una costruzione di enormi massi di calcaria, informi, irregolari, rozzi affatto, come furono spiccati dai monti, in modo che lasciando naturalmente degl’intervalli nelle commettiture, furono questi riempiuti con ciottoli pur di calcaria, come li rotolavano i vicini torrenti: questa costruzione è analoga affatto a quella delle mura ciclopee di Tirinto, e di Micene, e perciò rimonta alla epoca della fondazione della citta (pag. 505) fatta da Dardano circa l’anno 1470 avanti la era volgare, come fu vedutodi sopra, la seconda è di massi poliedri e trapezoidèi irregolarissimi, ma tagliati ad arte nelle faccie, che doveano essere a contatto colli altri massi, rustici però sono nella faccia esterna: la terza è di poliedri ben tagliati da tutte le parti: e la quarta è di ciottoli, o piccoli poliedri, e questa costruzione essendo sempre, o sovrapposta, o addossata alle precedenti è evidentemente la più recente di tutte. Ora quattro epoche io ritrovo nella storia di Cora, alle quali queste diverse costruzioni corrispondono: la prima è quella della fondazione 1470. anni prima della era volgare: la seconda è quella in che Latino Silvio vi dedusse la colonia albana, o latina, circa 1100. anni avanti la medesima era: la terza è quella della colonia romana dedotta circa l’anno 493. avanti la stessa era: e la quarta finalmente quella del ristauro di questa colonia dopo la devastazione mariana avvenuta 88. Anni avanti Cristo. Lo stile delle costruzioni sovraindicate corrisponde perfettamente con queste epoche, siccome di prova col confronto di altre opere coincidenti collo stesso tempo.

Dalla base al vertice delle città presentansi tre cinte diverse: la cinta inferiore è quella che può dirsi fatta nella prima costruzione della città: di questa veggonsi traccie nella via che dalla piazza Tassoni scende verso la chiesa di s. Maria: si ritrova a Pizzitonico: e termina fuori dalla porta Ninfesina: la seconda sorge sopra a s. Oliva, fiancheggia per qualche tratto la strada che da questa chiesa sale alla cittadella antica, dove vedesi rinfiancata con opera incerta, serve di sostruzione a questa strada medesima sopra al tempio di Castore e Polluce, ed in questo tratto a sinistra della via è un contro muro della terza epoca: la terza cinta è quella che chiudeva la cittadella, la quale domina la strada sovraindicata che da s. Oliva conduce a Cora a monte, e questa è della seconda epoca. Nella cittadella stessa poi l’area quadrilatera sopra la quale siede il tempio detto di Ercole è sorretta da un muro costrutto di opera incerta, ossia della era sillana cogli angoli di grandi massi di calcaria, i quali verso sud-ovest sono intatti. In tutte le costruzioni sovraindicate, a qualunque epoca esse appartengano, vedesi usata la calcaria locale del monte di Cora. Dal fatto delle costruzioni diverse usate in questi tre recinti, io credo di poter dedurre, che i Pelasgi di Dardano fondarono la loro città sulla balza inferiore fra piazza Tassoni e porta ninfesina: che gli Albano-Latini di Latino Silvio edificarono l’acropoli: che i Romani ampliarono le fortificazioni di questa cittadella nel IV. secolo di Roma, e fecero notabili ristauri o aggiunte al recinto primitivo, come al secondo: e finalmente che a’ tempi di Silla furono con opera incerta risarcite, e la città riedificata ed abbellita di templi, ed altri edificj publici. Quanto alle mura odierne, dove queste non sono antiche presentano la costruzione del principio del secolo XV. allorché per ordine di Ladislao re di Napoli vennero ristaurate.

Entrando a Cora per la porta veliterna, o romana, vedesi incastrata a destra nel recinto moderno una torre rotonda, che nella parte inferiore conserva ancora le traccie della costruzione di opera incerta, come nella parte superiore presenta il ristauro di Ladislao dell’anno 1408. Quindi è chiaro che in questa parte ricorresse ancora il recinto ristaurato da Silla, e che anche allora qui fosse una porta. Nella porta stessa vennero impiegati massi rettangolari di tufa, molto grandi, tolti probabilmente dall’antico edificio non molto distante, attinente alla chiesa di s. Maria, al quale pure appartennero gli altri impiegati nelle fabbriche private a destra e sinistra della strada. Le case private a sinistra formano un angolo ottuso dopo il viottolo che conduce a s. Maria, essendo addossate ed in parte formate nell’antica gran piscina di Pizzitonico, alla quale appartengono i muri di opera incerta, che verso la metà di questa strada s’incontrano. Proseguendo per questa strada si trova la moderna porta detta Ninfesina, perché posta nella direzione del castello abbandonato da Ninfa: essa ha succeduto alla porta Norbana antica, per la quale uscivasi alla colonia romana di norba. Presso questa porta prima di uscire è a destra la chiesa di s. Caterina nella quale è un buon quadro di colorito guercinesco rappresentante s. Tommaso, e nell’altar maggiore è una tela rappresentante s. Caterina, volgarmente creduta di Domenichino, ma per la trascuratezza de’ contorni, e per una certa stentatezza la credo piuttosto una copia.

Uscendo dalla porta ninfesina, reca sorpresa a sinistra un tratto di mura della prima epoca, pe rla grandezza de’ massi, che lo compongono, la loro irregolarità, e rozzezza, e la tinta di una remota antichità di che portano la impronta. L’antica via norbana, alla quale è succeduta quella moderna di Ninfa e di Norma, traversava presso questo punto il ramo orientale del fosso de’ Picchioni sopra il magnifico ponte ancora intatto, che i Corani chiamano della Catena, costrutto di enormi massiquadrilateri di tufa con tre ordini di pietre nel fornice, a somiglianza dell’arco della cloaca massima di Roma. Esso è evidente opera de’ Romani, fatto per mantenere le communicazioni fralle colonie di Cora e di Norba per mezzo di una via militare. L’altezza del baratro solcato dal torrente, che questo ponte scavalca, a partire del parapetto, è di 75. piedi romani, de’ quali 50 sono di rupe naturale, sopra il cui ponte s’innalza. Questa mole imponente è una delle opere più magnifiche che ci rimangono, e per la solidità, l’arditezza, e la utilità publica può paragonarsi alla cloaca massima. La volta, e i piloni dopo almeno 22. secoli, sono rimasti intatti. Ivi si gode di una veduta magnifica de’ recinti vetusti di Cora, sopra i quali torreggia il bel portico tetrastilo del tempio detto di Ercole. Da questo punto alle rovine importanti di Norba per una strada alpestre, sono 5 miglia.

Rientrando in città e salendo direttamente alla cittadella, passasi per Pizzitonico, traversasi il tempio di Castore e Polluce, e per s. Oliva si ascende alla piazza di s. Pietro. Per ora lasciando da parte quello che s’incontra per via e soltando parlando della cittadella, ho gia notato che le mura originali di essa sono della epoca seconda, e che furono ristaurate ed ampliate dai Romani nella terza e quarta epoca. Un bel pezzo di recinto della terza epoca guarda occidente, e domina immediatamente la chiesa di s. Oliva. Esso si vede salendo dalla piazza di s. Oliva stessa alla cittadella. A me sembra che l’acropoli corana divideasi in due parti, dopo la occupazione de’ Romani, in Arce propriamente detta verso occidente, ed in Capitolio verso oriente, giacché è noto che le colonie romane ad imitazione della metropoli aveano il loro Capitolio. Nella cittadella propriamente detta, oltre il recinto, non ho trovato altri avanzi degni di memoria. Del Capitolio però si traccia ancora l’area che conteneva i pempli, e di questi rimane ancora in piedi il portico di quello detto di Ercole nel lato orientale dell’area medesima. Esso è rivolto a sud-ovest, e la parte postica di questo tempio serve oggi di vestibolo alla chiesa parrocchiale di s. Pietro. In essa, a sostegno del fonte battesimale è impiegata un’ara antica di marmo che il volgo chiama del sole. Quest’ara è quadrilatera, di bella proporzione, di lavoro sodo, purissimo, ornata di criocranii negli angoli, dai quali partono encarpii che adornano le faccie. In mezzo a quella rivolta all’aula della chiesa, e alle due laterali vedesi effigiata la gorgone, alla quale furono ne’ tempi passati barbaramente scalpellate le estremità de’ capelli, e le cose de’ serpenti, onde il Volpi, il Piranesi, ed il volgo furono indotti nell’errore di crederla sacra al sole, mentre fu sacra a Minerva.

Traversando la chiesa si discende in un ameno giardino per visitare il grazioso tetrastilo dorico, che formava il portico del tempio. Le colonne sono di un travertino identico a quello di Tivoli, e molto poroso, onde per correggere tale difetto furono coperte di uno stucco finissimo: le modinature vennero eseguite con grazia e con franchezza: sulla porta della cella, che era costrutta di massi quadrilateri è la iscrizione, che ricorda i nomi de’ duumviri Marco Manlio, e Lucio Turpilio, che per sentimento del senato fecero il tempio: essa è disposta in due linee e dice così: nella prima:

M MaNLIVS M F L TVRPILIVS L F DVOMVIRES DE SENATVS

nella seconda:

SENTENTIA AEDEM FACIENDAM COERAVERVNT EISDEMQVE PROBAVERE

Questa iscrizione, come si vede, non ha punti, e le lettere in ambedue le linee sono di eguale grandezza: la loro forma è analoga a quella che si osserva in altre lapidi del VII secolo di Roma, colla quale si accorda pure la ortografia DVOMVIRES per DVVMVIRI, EISDEMQVE per IIDEMQVE, e perciò se mancassero altri argomenti desunti dallo stile dovrebbe dirsi edificato questo tempio nella riedificazione di Cora avvenuta ai tempi di Silla. Il Grutero p. XLIII. N. 15 riporta questa lapide sulla fede di Gutenstein molto travolta, donde il Volpi prende ansa T.VI. p. 158 per criticare quel gran raccoglitore, mentre egli stesso nella sua opera non ne riporta quasi alcuna esatta. La fronte di questo edificio è rivolta verso il monte Circèo. Le modinature della porta sono come tutte le altre eleganti e franche: l’architettura però è alcun poco greve, e la cornice è retta da due modiglioni. In generale lo stile di questa fabbrica è analogo per ogni riguardo alle costruzioni sillane del tempio della Fortuna Prenestina, ed al tempio così detto della Sibilla nella acropoli tiburtina. Winkelmann nelle sue Osservazioni sull’Architettura degli Antichi, asserisce, che avea veduto il disegno fatto di questo tempio dell’immortale Raffaele da Urbino, che allora apparteneva al barone di Stosch suo grande amico, e che poscia forse sarà passato nella biblioteca imperiale di Vienna. L’urbinate trovò il diametri inferiore 2. piedi e 7. oncie antiche: il superiore 2 piedi: le colonne alte 7 diametri senza la base ed il capitello: e l’altezza totale di 21 piedi. L’Antolini che fece una dissertazione architettonica su questo tempio, cadde nell’errore di supporlo de’ tempi imperiali. Egli crede che 13 fossero i gradini, pe’ quali salivasi a questo portico dall’area: osservò che le colonne sono sfaccettate per una terza parte del fusto, e scalanate, ma con poco risentimento e senza pianetto per le altre due. E nella base, che per se stessa è rara nell’ordine dorico presso gli antichi e che è semplicissima, essendo composta di un solo toro senza plinto, ravvisò la singolarità di un nuovo profilo, perché l’aggetto convesso del toro non togliesse alcuna parte della altezza del fusto: il capitello è di maniera dorica: il fregio con triglifi e metope è senza ornamenti, e la cornice è senza modiglioni. Ridotte le misure a moduli, essendo il diametro di ciascuna colonna 2 moduli, l’intercolunnio ne ha 4. le altezze 16: e fino alla trabeazione finita 18: il frontone è di 4 moduli più alto della cornice. Del tempio altro non rimane di visibile che le 8 colonne del portico col suo frontone, e la parete anteriore della cella colla porta; tutto il rimanente è, o distrutto, o coperto. Ora considerando l’ara trovata fra queste rovine che è di Minerva, e che qui pur enel secolo XVI fu ritrovata la statua assisa di Minerva che oggi è in Campidoglio, ornamento della fontana, e dal volgo chiamata Roma, parmi molto probabile credere a quella dea e non ad Ercole consacrato questo tempio, come il volgo, senza alcun fondamento valido lo appella. Dall’area di questo tempio si gode una sorprendente veduta di tutta la valle e pianura pontina. Siccome poi questo tempio è in un fianco dell’area e non in mezzo, non è improbabile che un’altro ne sorgesse dove oggi è la chiesa e la sagrestia di s. Pietro, il quale forse fu sacro ad Ercole, forse alle divinità capitoline Giove, Giunone, e Minerva.

Uscendo dal tempio e scendendo verso la città bassa veggonsi tosto a sinistra i poliedri del muro che formano un angolo, indizio della porta antica dell’acropoli. E deviando alcun poco sulla stessa mano si veggono mura a poligoni della terza epoca che furono parte del recinto dell’arce, e che oggi servono di sostegno alla strada. Continuando a discendere, vedesi avanti la casa Prence, un capitello corintio, che pretendesi appartenere al tempio di Castore: lungo la stessa via a destra è un avanzo di muro di opera incerta che indica il proseguimento delle mura dell’arce ristaurate a’ tempi di Silla; di tali mura in questo medesimo luogo si ammira un bel tratto prima di giungere alla chiesa di s. Oliva ed è quello ricordato sopra.

Si giunge quindi a s. Oliva, chiesa, che ha evidentemente cangiato forma; imperciocchè in luogo di avere la facciata rivolta verso mezzodì, ha oggi l’ingresso di fianco ad oriente. Il portico originale della chiesa forma oggi una specie di nave alla cappella del crocifisso, e la sua volta fu dipinta a fresco da un artista bizzarro nel secolo XVI, che ad una immaginazione fervida non seppre accoppiare né purità di disegno, né una ordinata composizione. Egli vi effigiò fatti del vecchio e nuovo testamento, ed è curioso vedere, come rappresentò la creazione degli animali, e quella della donna. Questa nave ha una porta particolare sulla quale una iscrizione mostra che la chiesa fu eretta da Ambrogio de Masari corano maestro dell’ordine degli Eremiti, e ridotta nel pieno suo splendore da Carlo Polo romano l’anno 1667. La tribuna di questa nave ha pitture dello stile del Pinturicchio, che rappresentano la Coronazione della Vergine. Qualunque sia stato l’edificio, è certo, che questa chiesa è fondata sopra una fabbrica antica rimanendo ancora dentro di essa al suo posto una base di colonna a sinistra. Generalmente di crede che ivi fosse un tempio sacro ad Esculapio ed Igièa per una iscrizione, che il Volpi confonde con un’altra di C. Oppio Lenate, che non vi ha né punto né poco da fare. In origine il convento dei pp. agostiniani era nel sito della odierna villaFasanella, ed ivi esisteva fin dal secolo XIV; quello attuale di s. Oliva fu edificato a’ tempi di Paolo II dal card. d’Estouteville. Sulla piazza è un pozzo del secolo XVI. fatto da Bartolomeo Cialdera potestà di Cora l’anno quinto della sua magistratura, come si legge in una iscrizione appostavi.

Da questa chiesa scendendo verso il tempio di Castore e Polluce, ossia verso la piazza di s. Salvatorevedesi a sinistr aun frammento di colonna scalanata, che dicesi appartenere al tempio di Castore. Sul fine della strada entrasi a destra in una casa particolare fabbricata entro il portico del tempio di Castore, del quale si veggono le colonne incastrate ne’ muri. Uscendo da questa traversato un arco moderno si discende alla piazza di s. Salvatore, sostenuta da antiche sostruzioni di opera incerta addossate alle mura primitive di poliedri rozzi, le quali reggevano l’area dinanzi al pempio, come oggi reggono la piazza di s. Salvatore. Questa per le macerie si è considerabilmente alzata, cosiché sono rimasti coperti i gradini del tempio. Sulla piazza si veggono ancora le due colonne che formavano l’intercolunnio centrale del portico, che era evidentemente esastilo cioè con sei colonne di fronte e due di fianco, e rivolto a mezzodì come quello della cittadella, il quale è quasi perpendicolare a questo, ma un poco più verso oriente. Per la materia, e lo stile è identico a quello: questo però e di ordine corintio, ed i capitelli sono di una esecuzione ammirabile, e così belli, che si direbbero fatti dallo stesso artista di quelli del tempio detto della Sibilla a Tivoli, e del tempio della Fortuna Prenestina. Le colonne hanno la base attica e la scozia molto stretta: i tori sono bassi, schiacciati, come cuscini, che cedono al peso del fusto: ed il filetto dell’imoscapo è staccato affatto dal toro superiore, particolarità che non ho osservato altrove. Le colonne erano coperte di uno stucco finissimo: le modinature sono eleganti, e la esecuzione n’è franca, e corretta. La iscrizione somiglia affatto per la forma delle lettere a quella del tempio tetrastilo, e mutilata dice così:

. . . M CASTORI POLLVCI DEC S FAC . . .

                M CALVIVS M F P N

Sebbene sia tronca essa conserva la parte più importante, poiché ricorda le divinità, alle quali era consacrato il tempio, il decreto del senato che lo fece edificare, e Marco Calvio che fece eseguire il lavoro. Trovandosi questa iscrizione sull’intercolunnio centrale, e la seconda linea rimanendo perfetta, io credo che vada restituità così:

AEDEM CASTORI POLLVCI DEC S FAC COER

               M CALVIVS M F P N

Il Volpi che sembra aver scritto la sua opera per pompa si una mal digerita erudizione, ma con poco criterio, e minor cognizione pratica, riporta questa iscrizione T. IV. p. 131 in questo modo, allegando il Corradini in margine:

AEDEM CASTORI POLLVCI DEC. S.

FACIENDAM PEQ SACR COER.

. . . . M . CALVIVS M . F. P . N .

Ma la iscrizione esiste per ismentire questo ristauro, poiché mancherebbe lo spazio: ed alla impostura di questo ristauro si aggiunge quella della descrizione del tempio che egli dice posto aspero admodum montis cacumini: e cosa avrebbe dovuto dire del tetrastilo? e fa pietà e meraviglia insieme, come abbia potuto unire tante fallacie sopra tutti i particolari di questo edificio, che io qui noterei, se non temessi di uscire dai limiti che mi sono prefisso. E neppure avrei notato quanto ho indicato, se non avessi giudicato opportuno di porre il lettore in guardia contra la credenza, che troppo facilmente si presta ad un autore, che tanta fama immeritevolmente riscosse. Uno scavo eseguito lungo il lato occidentale di questo tempio, che io vidi l’anno 1829 prima che fosse ricoperto ha dimostrato che questo tempio era del numero de’ prostili: che la colonna di fianco verso oriente che è nella casa, sebbene sconvolta è al posto suo: che la base di pilastro od anta incontro ad essa non stà al suo posto, ma appartiene ad uno de’ pilastri dell’angolo orientale della cella. In quella circostanza furono scoperti pezzi della cornice, che ivi dappresso sono collocati, e che presentano la singolarità che i massi componenti la cimasa sono distaccati da quelli contenenti i modiglioni.

Tornando sulla via publica, questa dicesi delle Colonnette, e va in linea retta a finire sulla piazza Tassoni. Lungo questa strada, a destra è un tinello e montano pertinente ai Picchioni, distinta famiglia Corana, fabbricato sopra i ruderi di un edificio antico costrutto di opera reticolata, dove rimane parte di un pavimento antico di musaico bianco e nero, un capitello corintio, una base, ed un brano di antica lapide municipale col cognome di un quatuorviro quinquennale:

. . . XIMVS IIII VIR QVINQ

Per la stessa via dinanzi la casa Tommasi che è a sinistra sono rocchi di colonne di ordine dorico, analoghe per lo stile a quelle del tempio dell’acropoli, e del diametro di 2 piedi. Nel tinello dirimpetto a questa casa sono le vestigia di un pavimento di opera tessellata. Indizii sono questi della esistenza antica di questa strada, lungo la quale erano case de’ cittadini. Poco dopo vedesi incastrata nel muro e rovesciata la lapide frantumata seguente in marmo, e dei tempi imperiali, con caratteri di bella forma, la quale è di somma importanza, perché mostra, che Cora anticamente, come oggi non avea un acquedotto che la fornisse, ma ampie cisterne edificate a spese pubbliche, nelle quali si raccoglieva l’acqua pluviale. Questa lapide che oggi è mutila fu data intiera da Volpi T. IV. p. 130 e da Chaupy Tomo III. p. 385 e seg. La parte esistente è stata da me fedelmente trascritta; per la mancante, l’ho supplita con la copia data dai due scrittori testé nominati, e nelle differenze fralle due lezioni ho adottato quella che ho creduto più probabile:

  1. OPPIVS VERVS l . f . m . tvrpilivs

PRISCVS m . F. III . vir . i . d

AQVAM CAELESTEM dilabentem mon .

TIBVS COLLECTAM interciso aggere

PER FORMAM CVRa sva factam pisci

NIS REPVRGATIS LONgo tempore

cesSANTIBVS Rivis . . . . . .

ENB . . . . . . p . p . perduxerunt

                         ex s . c

La via delle Colonnette termina nella piazza, sulla quale è la casa del conte Tassoni: e dirimpetto a quella verso settentrione vedesi torreggiare un muro a poliedri della III specie. Questa piazza ha ancora il nome di piazza Montagna per la casa a destra, la quale appartiene alla famiglia di questo nome: addossato ad essa è il frammento seguente di lapide in travertino, che io credo per la forma delle lettere contemporanea dei templi di sopra descritti. La iscrizione è in una specie di specchio circondato da una fascia e dice così:

                      l . puBLILIO M . F

                      l . n . l . PRO . N

                              flaCCO . IIII . VIR

                              . . VREI

                              . . IPVMQ

Questa è analoga, ed in parte simile ad un altro frammento esistente in casa Prosperi. Nella stessa piazza sono rocchi di colonne scalanate di Travertino, uno di 3 piedi di diametro, altri di 1 piede e 5 o. e capitelli di ordine corintio di 2 p. 4. o. Questi appartengono ad una epoca molto remota, e furono parte di qualche fabbrica pubblica esistente in questi dintorni.

Tornando sulla via delle Colonnette, si scende a Pizzitonico, area o piazza tutta artificiale, non essendo che il terrazzo delle antiche grandi piscine di Cora, delle quali si parla nella iscrizione di C. Oppio Vero riportata di sopra, e che oggi servono allo stesso uso, almeno in parte, giacché nel rimanente sono state ridotte ad uso di molini ad olio, di rimesse, abitazioni plebee ec. Queste ultime parti vanno sotto il nome volgare di terme, mentre nella pianta sono identiche alle altre conserve, non vi rimane traccia alcuna di ornamenti, e solo vi si ravvisano vestigia dell’astraco, o coccio pesto. Il muro di queste piscine internamente come le altre costruzioni romane è a sacco: esternamente però è fasciato di opera incerta, dove non sia stata tolta ne’ tempi posteriori. Queste piscine si estendono per lungo tratto, ed una idea se ne può avere entrando negli abituri della via, che dalla porta veliterna conduce a porta ninfesina, a sinistra, partendo dalla osteria: queste lasciano riconoscere indietro la forma per la quale vi penetrava l’acqua, e gli spechi. E sopra queste immense rovine siede e si appoggia una gran parte del fabbricato moderno di Cora a valle. Quando al nome Pizzitonico, che si dà a questa piazza, il volgo de’ Corani senza alcun fondamento lo deriva da piazza dorica; a me sembra che il nome puteus, pozzo non sia estraneo alla sua formazione. Verso settentrione questa area è protetta e dominata da una parte del recinto primitivo formato da massi enormi, i più grandi che io abbia mai veduti, e rinfiancato da opera incerta: e questo ristauro della era sillana, dove sporge in fuori ha gli angoli consolidati da pietre quadrilatere. Andando da Pizzitonico verso l’orto Tuzj si scende prima alcun poco e quindi si sale di nuovo: a sinistra del salirvi sono mura a poligoni della prima epoca, sebbene i massi non siano molto grandi. Nell’orto Tuzj vidi l’anno 1825 varii capitelli di ordine corintio di diametro corrispondente ai rocchi delle colonne minori della piazza Montagna, anche essi di travertino, e di stile affatto analogo a quelli del tempio della Fortuna Prenestina.

Ritornando sulla via grande che dalla porta veliterna conduce a porta ninfesina e prendendo verso la porta veliterna, poco prima di giungere a questa a sinistra è la casa Vettorj: ivi dinanzi la casa nel cortile veggonsi gli avanzi di un’altro edificio pubblico consistenti in due colonne di ordine dorico, non scalanate, con base, che stanno ancora in piedi e che per lo stile appartengono alla epoca stessa de’ due templi: lo stilobata, sul quale poggiano, è nella parte esterna tutto di travertino: ivi sono pure frammenti di mezze colonne della stessa pietra e dello stesso diametro.

Sulla sponda opposta della strada grande è un vicolo, pel quale si sale alla chiesa di s. Maria. Ivi è la casa Prosperi, una delle più antiche di Cora, leggendosi sulla porta interna della medesima la data dell’anno 1525. Nel cortile vedesi l’altro frammento di lapide pertinente a Lucio Publilio, ricordato di sopra, dove si parlo della casa Montagna, il quale sebbene sia dello stesso tempo, ed appartenga allo stesso personaggio non fa però parte della iscrizione medesima. Il frammento di casa Prosperi dice così:

L . PVBLILI m . f . l . n .

L . PRO . NEp . . . . . . .

IIII VIR QVinq . . . . . . .

PONTIF . . . . . . . . . . .

PVBLIC . . . . . . . . . . . .

Il Volpi, che la riporta alla p. 145 la dà tanto scorretta, che finisce coi pulvinari degli dii, e si estende in una digressione inutile. Nello stesso cortile sono due cenarii colle epigrafi seguenti:

MANIBVS              MANIB

AEBVTI                 AEBVTIAE

CHRESIMI             BELLAE

Andando a casa Prosperi verso la chiesa di s. Maria che è la collegiata di Cora, vedesi a destra una sostruzione romana di pietre quadrilatere sulla quale fu edificata quella chiesa medesima, e che forse anticamente servì di sostegno ad un edificio de foro corano, che io credo corrisponda alla piazza di s. Maria. Nella chiesa è un bel quadro della Pietà di colorito assai forte, ed un candelabro de’ bassi tempi pel cero pasquale, opera del secolo XIII.

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